martedì 9 dicembre 2014

Uccidere bambini e urlare frasi senza senso


A forza di sentirlo ripetere c'è chi crede che esista davvero.
Un fenomeno preoccupante, tragedie che si ripetono a raffica, un concatenarsi di fenomeni che hanno come base comune la discriminazione e il sessismo.
Sì perché il femminicidio, una parola che anche word segna come sbagliata, è il dramma del nostro tempo. In Italia una donna su due è votata al macello. In Italia gli uomini sono tutti rozzi wife-beater con indosso canottiere striminzite e pantaloni sdruciti. In Italia le donne non lavorano, servono. In Italia gli uomini dominano questi poveri agnelli indifesi.
Ma se politici e giornalisti volessero una volta tanto aprire gli occhi e fare esercizio di onestà intellettuale, direbbero che i casi in cui una donna viene uccisa da un uomo sono casi di omicidio puro e semplice. Le cause di queste uccisioni? Follia improvvisa, gelosia ingiustificata, sopraffazione e magari, alle volte, esasperazione, depressione, vessazione psicologica.
Sappiate che se le donne subiscono violenza fisica, gli uomini (i maschi) non di rado subiscono vessazioni psicologiche e vere e proprie torture mentali. Le donne sono maestre in questo.
Ora: qualsiasi persona di buon senso la smetterebbe di inventare parole a cazzo e inventare una discriminazione generalizzata a danno del gentil sesso e comincerebbe una ragionamento a vasto raggio sul disastro di una nazione e dell'istituzione familiare. Ma questo non accadrà, non in Italia.
Da noi i casi di infanticidio si susseguono con puntualità quasi mensile se non bisettimanale. Da noi le violenze su minori procedono a spron battuto in casa e all'asilo. E indovina un po': nel 90% dei casi sono le donne a commettere il reato.
Queste leggiadre creature sottoposte a soprusi e angherie di ogni genere ogni tanto impazziscono, il cervello fa black-out e iniziano a strangolare e mollare fendenti. Poi non ricordano niente e restano i mariti o compagni di sorta a piangere sull'impensabile.
Negli anni della crisi e dell'incertezza che sottomette tutto e tutti, è la famiglia a rimetterci nel modo più drastico. E niente e nessuno muove un dito per migliorare le cose. Mariti assenti, madri depresse, figli abbandonati. Una nazione di ombre.
Non saranno gli avvocati divorzisti a salvarci.
Ecco, prima di parlare di femminicidio, signora B., faresti meglio a ragionare sull'alta incidenza di infanticidi compiuti da donne. Sulla follia che qualche volta passa dalle sfuriate gratuite nei confronti del partner, alla violenza più cieca e insensata contro il proprio figlio indifeso.
Ma certo, tu femminista probabilmente non hai figli e forse non hai neppure un uomo. Perché tu sei tua, sei l'amore della tua vita. E allora speriamo che il tuo lato maschile, prima o poi, decida di commettere un femminicidio.

lunedì 20 ottobre 2014

Marte ed Efesto: il ritorno della storia

di Guillaume Faye (trad. dall'inglese di F. Boco)

Permettetemi una parabola “archeofuturista” basata sul simbolo eterno dell’albero, che affiancherò a quello del razzo. Ma prima, osserviamo il volto inquietante del secolo che avanza.
Il ventunesimo secolo sarà un secolo di ferro e tempeste. Non assomiglierà a quegli armoniosi futuri immaginati negli anni ’70. Non sarà il villaggio globale profetizzato da Marshall MacLuhan nel 1966, o la connessione planetaria di Bill Gates, o la fine della storia di Francis Fukuyama: una civilizzazione liberale globale diretta da uno stato universale. Sarà un secolo di popoli in competizione e identità etniche. E paradossalmente, i popoli vittoriosi saranno quelli che rimarranno fedeli a, o torneranno a, valori e realtà ancestrali – che sono biologiche, culturali, etiche, sociali e spirituali – e che al tempo stesso domineranno la tecnoscienza. Il ventunesimo secolo sarà quello in cui la civilizzazione europea, prometeica e tragica ma eminentemente fragile, passerà attraverso una metamorfosi o si avvierà all’irrimediabile tramonto. Sarà un secolo decisivo.
In Occidente, il diciannovesimo e ventesimo secolo sono stati i tempi della fede nell’emancipazione dalle leggi della vita, la credenza che fosse possibile avanzare indefinitamente dopo aver raggiunto la luna. Il secolo ventunesimo probabilmente segnerà seccamente il punto d’arrivo e noi “torneremo alla realtà”, probabilmente soffrendo.
I secoli diciannovesimo e ventesimo videro l’apogeo dello spirito borghese, questa piccola escrescenza mentale, questo mostruoso e deforme simulacro dell’idea di élite. Il ventunesimo secolo, un tempo di tempeste, vedrà il contemporaneo rinnovarsi dei concetti di popolo e aristocrazia. Il sogno borghese crollerà per la putrefazione dei suoi principi fondanti e le sue puerili promesse: la felicità non viene da materialismo e consumismo, dal trionfante capitalismo transnazionale e dall’individualismo. E neppure da sicurezza, pace o giustizia sociale.
Coltiviamo allora l’ottimismo pessimistico di Nietzsche. Come scrisse Drieu La Rochelle: “Non c’è più alcun ordine da conservare; è necessario crearne uno nuovo”. L’inizio del ventunesimo secolo sarà difficile? Tutti gli indicatori sono rossi? Tanto peggio, tanto meglio. Hanno previsto la fine della storia dopo il collasso dell’URSS? Noi vogliamo accelerarne il ritorno: roboante, bellicoso e arcaico. L’Islam ricomincia le sue guerre di conquista. L’imperialismo americano è scatenato. Cina e India intendono diventare superpotenze. E così via. Il ventunesimo secolo sorgerà sotto il doppio segno di Marte, dio della guerra, e Efeso, il dio che forgia le spade, il signore della tecnologia e dei fuochi ctoni.

Verso la quarta era della Civiltà Europea
La civiltà europea – non bisognerebbe esitare a chiamarla alta civiltà, nonostante i palati delicati degli etnomasochisti xenofili – sopravvivrà al ventunesimo secolo solo attraverso una dolorosa revisione di alcuni dei suoi principi. Ne sarà capace se rimarrà ancorata alla sua eterna personalità metamorfica: mutare rimanendo se stessa, coltivare radicamento e trascendenza, fedeltà alla sua identità e alle sue grandi ambizioni storiche.
La Prima Era della civiltà europea include l’antichità e il periodo medioevale: un tempo di gestazione e crescita. La Seconda Era va dall’Età delle scoperte alla Prima Guerra Mondiale: è l’Assunzione. La civiltà europea conquista il mondo. Ma come Roma o l’Impero di Alessandro, venne divorata dal suo stesso figliol prodigo, l’Occidente e l’America, e proprio dai popoli che colonizzò (superficialmente). La Terza Era della civiltà europea comincia, in una tragica accelerazione del processo storico, con il Trattato di Versailles e la conclusione della guerra civile 1914-18: il catastrofico ventesimo secolo. Quattro generazioni bastarono a disfare l’opera di più di quaranta. La Storia assomiglia agli asintoti trigonometrici della “teoria della catastrofe”: è al massimo del suo splendore che la rosa appassisce; è dopo un periodo di sole e calma che irrompe il ciclone. La Rupe Tarpea è vicina al Campidoglio! L’Europa cadde vittima del suo stesso tragico prometeanismo, il suo stesso aprirsi al mondo. Vittima degli eccessi di ogni espansione imperiale: universalismo, perdita di ogni solidarietà etnica, e quindi anche vittima di gretto nazionalismo.
La Quarta Era della civiltà europea inizia oggi. Sarà l’Era della rinascita o della perdizione. Il ventunesimo secolo sarà per questa civiltà l’erede dei fraterni popoli Indo-Europei, il secolo destinale, il secolo della vita o della morte. Ma il destino non è semplicemente fato. Contrariamente alle religioni del deserto, il popolo europeo sa nel profondo del suo cuore che destino e divinità non sono onnipotenti in rapporto alla volontà umana. Come Achille, come Ulisse, l’autentico uomo europeo non si prostra e non si inginocchia agli dei, ma resta in piedi. Non vi è inevitabilità nella storia.

La parabola dell’albero
Un albero ha radici, tronco e foglie. Il che vale a dire, il principio, il corpo e l’anima.
1)      Le radici rappresentano il “principio”, il fondo biologico di un popolo e il suo territorio, la sua madrepatria.  Non appartengono a noi; si trasmettono. Appartengono al popolo, all’anima ancestrale, e provengono dal popolo, ciò che i Greci chiamavano ethnos e i Germani volk. Provengono dagli antenati; esse sono rivolte a nuove generazioni. (Questo è il motivo per cui ogni accoppiamento tra parenti è un’appropriazione illegittima di un bene che deve essere tramandato e quindi un tradimento). Se il principio svanisce, nulla è più possibile. Se si taglia il tronco dell’albero, esso può ben ricrescere. Anche se ferito, l’albero può continuare a crescere, finché conserva la fedeltà alle proprie radici, alle sue fondazioni ancestrali, il suolo che fornisce la vita. Ma se le radici vengono strappate o il suolo inquinato, l’albero è condannato. Questo è il perché colonizzazione territoriale e mescolamento razziale sono infinitamente più seri e mortali di ogni asservimento culturale e politico, da cui un popolo può guarire.
Le radici, il principio dionisiaco, crescono e penetrano il suolo in nuove ramificazioni: vitalità demografica e protezione territoriale dell’albero contro le erbacce. Le radici, il “principio”, non sono mai fisse. Esse dispiegano la propria essenza, come dice Heidegger. Le radici sono al tempo stesso “tradizione” (ciò che passa di mano in mano) e “archè” (fonte di vita, eterno rinnovamento). Le radici sono quindi la manifestazione della più profonda memoria ancestrale e dell’eterna giovinezza dionisiaca. Quest’ultima si riferisce al concetto fondamentale di dispiegamento.
2)      Il tronco è il suo “soma”, il corpo, l’espressione culturale e psichica del popolo, sempre rinnovantesi ma sostenuto dalla linfa fornita dalle radici. Non è solidificato, non è congelato. Cresce in strati concentrici e si innalza verso il cielo. Oggi, quelli che vogliono neutralizzare e abolire la cultura europea tentano di “preservarla” sotto forma di monumenti del passato, come in formaldeide, per “neutri” studenti, o più semplicemente per abolire la memoria storica delle giovani generazioni. Fanno il lavoro dei boscaioli. Il tronco, nella terra a cui appartiene, anno dopo anno, cresce e muta. L’Albero della vecchia civiltà europea è al contempo sradicato e intatto. Una quercia di dieci anni non assomiglia a una di mille anni, ma è la stessa quercia. Il tronco, che si protende verso la luce, obbedisce al principio Iuppiterino.
3)      Il fogliame è la parte più fragile e bella. Muore, appassisce e riappare come il sole. Cresce in ogni direzione. Il fogliame rappresenta la psiche, cioè la civilizzazione, la produzione e profusione di nuove forme di creazione. È la ragione di vita dell’albero, la sua missione. In aggiunta, a quale legge obbedisce la crescita delle foglie? Fotosintesi. Vale a dire “l’utilizzo della forza della luce”. Il sole nutre le foglie che, in cambio, producono ossigeno vitale. Il fiorente fogliame segue dunque il principio Apollineo. Ma attenzione: se esso si sviluppa disordinatamente e anarchicamente (come la civilizzazione europea, che ha cercato di diventare l’Occidente globale ed estendersi a tutto il pianeta), sarà travolto dalla tempesta, come una vela male cardata, che schianterà e sradicherà l’albero a cui appartiene. I rami devono essere potati, disciplinati. Se la civilizzazione europea intende sopravvivere, non deve estendersi all’intera Terra, e neppure utilizzare la strategia delle braccia aperte…  poiché il fogliame che è troppo intrepido si estende eccessivamente, o si lascia sopraffare dalle erbacce. Essa deve concentrarsi sul suo spazio vitale, l’Eurosiberia. Da qui l’importanza dell’imperativo dell’etnocentrismo, un termine che è politicamente scorretto, ma che è da preferire al modello “etnopluralista” e di fatto multietnico che cospiratori e distorsori spingono allo scopo di confondere lo spirito di resistenza della giovane élite ribelle.
Si può comparare la metafora tripartita dell’albero con quella straordinaria invenzione europea che è il razzo. I propulsori corrispondono alle radici, col fuoco ctonio. Il corpo cilindrico è come il tronco dell’albero. E la capsula, da cui vengono sganciati satelliti o vascelli potenziati da pannelli solari, fa venire in mente le foglie.
È davvero un caso che la serie di cinque grandi razzi spaziali costruita da europei – inclusi quelli espatriati in USA – fossero chiamati rispettivamente Apollo, Atlas, Mercurio, Tor e Arianna? L’Albero è il popolo. Come il razzo, esso si innalza verso il cielo, ma parte da una terra, un suolo fertile dove non può essere ammessa alcuna malerba. Da un punto di vista ambientale, ci si assicura una perfetta protezione e totale pulizia della rampa di lancio. Allo stesso modo, il buon giardiniere sa che se l’albero deve crescere alto e forte, deve pulire la sua base dalle erbacce che impoveriscono le sue radici, liberare il tronco dalla presa delle piante parassite e anche sfoltire i rami pendenti e sovrabbondanti.

Dal tramonto all’alba
Questo sarà il secolo della metamorfica rinascita dell’Europa, come la Fenice, o della sua scomparsa come civilizzazione storica e della sua trasformazione in uno sterile Luna Park cosmopolita, mentre gli altri popoli conserveranno le loro identità e svilupperanno il loro potere. L’Europa è minacciata da due virus affini: quello di dimenticare se stessa per aridità interiore e quello di eccessiva “apertura all’altro”. Nel ventunesimo secolo l’Europa, per sopravvivere, dovrà curarli entrambi, vale a dire, ritornare alla sua memoria e seguire le sue aspirazioni faustiane e prometeiche. Questa è la necessità della coincidentia oppositorum, la convergenza degli opposti, o la duplice necessità di memoria e volontà di potenza, contemplazione e creazione innovativa, radicamento e trascendenza. Heidegger e Nietzsche…
L’inizio del ventunesimo secolo sarà la terribile mezzanotte del mondo di cui parlò Holderlin. Ma fa sempre più buio prima dell’alba. Si sa che il sole tornerà, sol invictus. Dopo il crepuscolo degli dei: l’alba degli dei. I nostri nemici hanno sempre creduto nella Grande Sera, e le loro bandiere portano le stelle della notte. Le nostre bandiere, al contrario, sono adornate con la stella del Grande Mattino, dai raggi estesi; con la ruota, il fiore del sole di Mezzodì.
Grandi civilizzazioni possono passare dall’oscurità del declino alla rinascita: Islam e Cina lo dimostrano. Gli Stati Uniti non sono una civilizzazione, ma una società, la materializzazione globale della società borghese, una cometa, come una potenza tanto insolente quanto transitoria. Non ha radici. Non è il nostro vero competitore nel palcoscenico della storia, soltanto un parassita.
Il tempo della conquista è terminato. Ora è il tempo della riconquista, interna ed esterna: la riappropriazione della nostra memoria e del nostro spazio: e che spazio! Quattordici fasce orarie dove il sole non tramonta mai. Da Brest allo Stretto di Bering: è davvero l’Impero del Sole, l’autentico luogo di nascita ed espansione del popolo Indo-Europeo. A sud-est si trovano i nostri cugini Indiani. A oriente la grande civilizzazione cinese, che dovrà decidere se essere nostra nemica o nostra alleata. A occidente, dall’altra parte dell’Oceano: l’America, che tenterà sempre di prevenire l’unione continentale. Ma potrà fermarla per sempre?
E ancora, a sud: il pericolo maggiore, scaturito dalle profondità della storia, quello con cui non sono possibili compromessi.
Boscaioli tentano di abbattere l’Albero, al loro fianco vi sono molti traditori e collaborazionisti. Difendiamo la nostra terra, proteggiamo il nostro popolo. Il conto alla rovescia è iniziato. Abbiamo tempo, ma poco.
E quindi, anche se taglieranno il tronco o la tempesta lo abbatterà, le radici rimarranno, sempre fertili. Una sola scintilla è sufficiente a riaccendere un fuoco.
Ovviamente, potranno schiantare l’Albero e smembrarne il cadavere, nel suono di una canzone crepuscolare, e gli europei anestetizzati non proveranno dolore. Ma la terra è fertile e un solo seme è sufficiente a iniziare una nuova crescita. Nel ventunesimo secolo, prepariamo i nostri figli alla guerra. Educhiamo dunque i nostri giovani, si tratti pure di una minoranza, come una nuova aristocrazia.

Oggi la morale non basta. Abbiamo bisogno di un’ipermorale, cioè l’etica nietzscheana dei tempi duri. Quando si difende il proprio popolo, i propri figli, allora si difende l’essenziale. Allora si segue la legge di Agamennone e Leonida, ma anche di Carlo Martello: ciò che prevale è la legge della spada, il cui bronzo o acciaio riflette la luce del sole. L’albero, il razzo, la spada: tre simboli verticali si ergono dal terreno verso la luce, dalla Terra al Sole, animati da linfa, fuoco e sangue. 

venerdì 1 agosto 2014

Guillaume Faye: Perchè combattiamo?


Dieci brevi spunti dal libro "Why we fight?" Arktos Pub. Tradotto dall'inglese da F. Boco

L’Europa è in guerra, ma non lo sa… È occupata e colonizzata da popolazioni del Sud e sottomessa economicamente, strategicamente e culturalmente al Nuovo Ordine Mondiale americano… È il malato del mondo.
Archeofuturismo: è lo spirito che riconosce che il futuro sorge da una rinascita dei valori ancestrali e che i concetti di modernità e tradizionalismo devono essere superati dialetticamente… Per affrontare il futuro, specie oggi, è necessario fare ricorso a una mentalità arcaica che è premoderna, inegualitaria e non-umanistica; una mentalità che restaura i valori arcaici e quell’ordine sociale… Il futuro non è quindi la negazione della tradizione o della memoria storica di un popolo, ma piuttosto la sua metamorfosi e infine la sua crescita e rigenerazione.
Identità: Caratteristica dell’umanità è la diversità e particolarità dei suoi popoli e culture. Ogni omogeneizzazione è sinonimo di morte e sclerosi… Identità etnica e culturale formano un blocco, ma l’identità biologica è primaria, poiché senza di essa la cultura e la civiltà non possono sussistere… L’identità non è mai congelata, essa rimane se stessa solo evolvendo, conciliando essere e divenire.
Biopolitica: Un progetto politico che risponde agli imperativi biologici e demografici di un popolo… La biopolitica è dettata dal principio che la qualità biologica di un popolo è essenziale alla sua sopravvivenza e benessere.
Selezione: Il processo collettivo, basato sulla competizione, che minimizza o elimina i deboli e favorisce i forti e capaci. La selezione comprende sia la naturale evoluzione di una specie che lo sviluppo storico di una cultura e civiltà… La società contemporanea previene una giusta selezione imponendone al suo posto una selvaggia e ingiusta basta sulla legge della giungla.
Interregnum: il periodo tra la fine di una civilizzazione e la possibile nascita di un’altra. Noi stiamo attraversando un interregno, un tragico momento storico dove tutto è in fiamme e dove tutto, come una Fenice, può risorgere dalle sue ceneri.
Guerra civile etnica: Solo l’irrompere di una tale guerra risolverà i problemi creati dall’attuale colonizzazione, Africanizzazione e Islamizzazione dell’Europa… Solo quando si trova con le spalle al muro un popolo è costretto a ricorrere a soluzioni che in altri tempi mai avrebbe considerato.
Rivoluzione: Il violento rovesciamento di una situazione politica che segue a una crisi profonda ed è opera di una “minoranza attiva”… Una vera rivoluzione è una metamorfosi, cioè un radicale sovvertimento di tutti i valori. L’unico rivoluzionario dell’era moderna è Nietzsche… non Marx, che voleva soltanto una forma differente di società borghese… Abbiamo da molto tempo superato il punto di non ritorno, quando è ancora possibile arrestare il prevalere della decadenza con moderate riforme politiche.
Aristocrazia: Un’autentica aristocrazia incarna l’essenza del suo popolo, che essa serve con coraggio, disinteresse, modestia, stile, semplicità e autorevolezza… Ricreare una nuova aristocrazia è l’eterno obiettivo di ogni vero progetto rivoluzionario… La creazione di un’aristocrazia di questo tipo è possibile solo attraverso la guerra, che è la più spietata delle forze selettive.

Volontà di potenza: La tendenza di ogni vita a perpetuarsi, ad assicurarsi la sopravvivenza e incrementare la propria autorità, superiorità e le sue capacità creative… La volontà di potenza accetta la vita come lotta, un’eterna lotta per la supremazia, l’eterno sforzo di migliorarsi e perfezionarsi, il rifiuto assoluto del nichilismo, l’opposto del relativismo contemporaneo… È la forza della vita e della storia. Non è soltanto l’imperativo organico alla dominazione, ma alla sopravvivenza e alla continuità… Un popolo o una civilizzazione che abbandoni la propria volontà di potenza perisce inevitabilmente.

martedì 22 luglio 2014

Il rifiuto cosmico


L’uomo stava raggiungendo il luogo dell’incontro a piedi. Un piazzale a dieci minuti dalla sua abitazione. Nel cammino notò i numerosi negozi sfitti, le vetrate vuote e il senso di innaturale smarrimento che questo generava in un quartiere che un tempo era stato vivo. Solo il traffico delle automobili teneva in vita quella parte della città, altrimenti destinata all’oblio.
Ricordava che qui c’era il negozio di alimentari e là il barbiere, dall’altra parte della strada la cartoleria e poco oltre il bar dove si trovava con gli amici quand’era ragazzo. Ora restavano solo cartelli gialli e verdi con scritto affittasi, polvere e vecchie insegne appoggiate contro il muro interno. Ricordi di un tempo che sembrava lontanissimo.
In compenso aveva aperto da anni una di quelle famigerate agenzie interinali. Era passato di lì anche lui, dopo aver perso il lavoro, ma si era ben presto reso conto che per trovare un’occupazione avrebbe dovuto fare da sé. Quei posti servivano solo a far perdere tempo e creare false illusioni. Grandi discariche di curriculum vitae e disperazione. Impieghi un tanto al minuto. Futili sassolini smarriti da un pachiderma distratto. Là giacevano intere famiglie e lo scorrere del tempo erodeva un po’ alla volta ogni prospettiva futura. Così era morto il futuro, così stavano soffocando le città assieme alle attività produttive. Un’economia di sussistenza, parassitaria e folle. L’abominio si ingigantiva e pulsava tutto attorno, stritolava i muri, squarciava i vetri, irrompeva nelle tristi stanze e fagocitava i muti sciocchi abitanti.
Poi c’era la grande sala slot. Vetrate colorate, luci invitanti e arredamento di classe. L’antro dell’inferno non poteva essere più accogliente. Mentre in Ungheria venivano messe fuori legge, al pari della peggior droga messicana, nel nostro paese i partiti si nutrivano senza batter ciglio dei frutti della disperazione. Mentre i negozi chiudevano, le sale slot prosperavano e i ristoranti cinesi facevano affari. L’uomo aveva l’impressione che solo la memoria avrebbe potuto salvare il suo mondo dal lento svanire in cui stava precipitando.
Il ragazzo lo stava aspettando appoggiato all’auto. Guardava distrattamente intorno. Lo salutò con un cenno.
Di cosa volevi parlarmi ragazzo?
Non trovo lavoro, forse potresti aiutarmi.
Non saprei come fare sinceramente. Dovresti rapinare uno di quei posti maledetti. Disse indicando una sala slot.
È un’idea.
Per come stanno le cose, solo regredendo allo stadio primordiale possiamo avere un futuro.
Per un po’ rimasero in silenzio. Macchine andavano e venivano nel parcheggio. Dal bar all’angolo proveniva della musica. Poi il ragazzo disse:
Ho due pillole. Una bianca e una nera. Quale dovrei prendere?
E a cosa servono?
Me le ha date un tizio. Dice che una sceglie il mondo di oggi, l’altra l’incognita.
Non è molto chiaro.
No, infatti.
Devi prenderla per forza?
No.
Ma sei curioso.
Sì.
Scegli l’incognita, è pur sempre meglio di quello che già abbiamo.
Il ragazzo annuì con un cenno impercettibile. Calpestò la pillola bianca sotto la suola della scarpa e ingoiò quella nera.
Per qualche minuto rimasero in silenzio. A un certo punto il ragazzo si piegò in due, trafitto da fitte fortissime all’addome. Iniziò a gridare. L’uomo non sapeva che fare.
I muscoli e la pelle iniziarono a tremare, a crescere ed espandersi in modo distorto. Nel giro di qualche minuto il ragazzo era cresciuto di dimensione, ingrandendosi a dismisura, le vene pulsanti, i muscoli come enormi bubboni. Le grida avevano attirato una folla di curiosi che assisteva impotente e cinica ai movimenti disumani e distorti di quell’ammasso di carne gelatinosa gorgogliante.
Divenne enorme, perdendo completamente la forma umana, assumendo le sembianze di un gigantesco organismo unicellulare primigenio. Iniziò a inglobare macchine e persone, stritolando e soffocando tra le pieghe di quell’ammasso di carne deforme.
L’uomo si era allontanato in preda al panico. Del suo giovane amico non restava nulla. Ora una forma di vita primitiva e orribile schiacciava ogni cosa sul suo cammino, aumentando gradualmente di dimensione. Il principio del grande rigetto cosmico.

martedì 15 luglio 2014

Sacrificio


Il cielo è nero, il mare una distesa di grigio scuro e la sabbia è bruna, intrisa del sangue dell’uomo che ho ucciso.
Io ultima figura di un bianco smorto sull’orlo del nulla. Spingo lo sguardo fin dove può arrivare. Sfuggenti riflessi cobalto attraversano il cielo dove le stelle sono morte e il sole si è spento. L’orbita cieca della Terra si è arrestata, il magnetismo è collassato. é l’era dei cataclismi.
La banchina di pietroni si distende come un tentacolo abbandonato a bordo dell’acqua morta, putrescente. E nel buio non c’è luce, solo livide sagome di muretti e chioschi in lontananza e pochi segni del passaggio dell’uomo.
I miei passi sprofondano nella sabbia rossastra. Osservo il morto. Intravedo i lineamenti e la fisionomia. Nella mia mano stringo ancora la pistola.
In fondo tutto ciò che non vediamo non esiste. Quale uomo può esistere senza altri uomini? Al di fuori della società degli uomini cosa resta?
La Terra è un astro morente in un universo oscurato. La parabola mortale è arrivata al suo epilogo e non ci sono testimoni. Il grido muto della vita che svanisce si perde nel nero stellare, come polvere senza ritorno.
Come siamo arrivati a questo è difficile dirlo. Sembra una notte eterna che ingoia ricordi e realtà. Non si vede quasi niente attorno, ho dimenticato i colori e la luce.
Non resto che io. E anche ci fosse qualcun altro, non lo saprei e non farebbe differenza. è scesa la fine inesorabile su tutto ciò che conoscevamo. Il mondo è un’invenzione dell’uomo. Ora non resta che il buio. Abito il buio. Cammino nel nulla. è il tempo dell’indifferenziato e dell’immobile e silenzioso movimento di pianeti freddi, grigi e morti.
Non ricordo chi fosse l’uomo che ho ucciso. Forse era un amico, forse uno sconosciuto. Non so come sia arrivato qui, con me.
Mi ha chiesto di ucciderlo.
Gli ho domandato perchè avrei dovuto farlo.
Perchè morire senza che nessuno lo sappia è come non morire, ha risposto.
Non capivo.
Significherebbe smarrirsi nell’indifferenza di questo pianeta di ombre, ha cercato di spiegarmi.
Mi faceva male la testa e questi pensieri mi affaticavano. Non lo seguivo. lo vedevo a malapena e non distinguevo i lineamenti.
Sei solo stanco. E folle. Gli ho risposto.
No. Tu non capisci, ha detto. Noi stiamo svanendo, le nostre vite e i nostri ricordi stanno soffocando e prima che sia troppo tardi, prima che di me non resti nulla, voglio conservare il mio essere.
Non sono un assassino.
Non sei un assassino. Non lo saresti in nessun caso. Non esiste più un mondo, non esistono più leggi, non esiste più nulla. Posso fare da solo se preferisci.
Per un arco di tempo indefinibile abbiamo taciuto. Fissavo i paraggi, sforzandomi di distinguere qualche forma, cercando di ricordare qualcosa. Lui vicino a me.
Come siamo arrivati a questo? Ho domandato.
Non lo so, ma era una cosa che dovevamo mettere in conto.
In che senso?
Non siamo che uno dei molti pianeti nell’universo e non siamo che una delle molte forme di vita. Il nostro tempo è finito.
Siamo ancora vivi però.
Non per molto. E in ogni caso non fa alcuna differenza. Il mondo si è vestito a lutto e la cosa più ragionevole che possiamo fare è accettare la fine finchè è ancora possibile averne una.
Morirò anch’io, dopo che ti avrò ucciso, ho risposto.
Credo mi stesse fissando nel buio, quando mi rispose - no, tu non morirai davvero, è un lusso che non potrai permetterti. Perchè sarai solo, dimenticato e senza ricordi. Ti esaurirai, sparirai, ma la morte ti terrà lontano da sé.
Cazzate.
Non importa cosa pensi, sparami e basta.
Passò qualche istante. Alzai il braccio e puntai la pistola alla sua testa. La mano sembrava perdersi nel nulla circostante.
Il lampo dell’esplosione illuminò per un istante il volto dell’uomo e il grumo di sangue che si aprì dalla sua testa. Poi tornò il silenzio.
Questa è l’ultima storia che posso raccontare. è l’ultimo ricordo ancora vivo in me. Forse è l’ultimo lampo dell’essere umano che ero.

venerdì 6 giugno 2014

Le fortezze signorili si moltiplicarono e funzionarono come simboli e sedi di poteri di banno, poteri cioè di costrizione e di giurisdizione concorrenti con quelli di origine pubblica. Esse del resto imitavano un processo in corso nell'ordinamento pubblico stesso dei regni. Le fortezze, infatti, erette in numero crescente, a protezione territoriale, dagli ufficiali pubblici, conti e marchesi e duchi e loro agenti subordinati, acquistarono spesso una notevole autonomia rispetto al potere regio e divennero sedi di dinastie funzionariali fornite di una propria base fondiaria, in questo modo assumendo un carattere signorile analogo a quello delle signorie ecclesiastiche e laiche in via di formazione spontanea. 

martedì 20 maggio 2014

La fortezza



La città contemporanea è evanescente, non sembra avere confini reali, si disperde ed esaurisce nei dintorni al di là della periferia sfuggendo verso qualcos’altro di ancora indistinto. Più la città s’ingrandisce, più questo carattere di vacuità si amplia, fagocita ciò che sta intorno. È ormai abituale l’argomentazione che dice che questo è il naturale evolvere delle cose, la globalizzazione porta con sé l’appiattimento dei luoghi e delle popolazioni; è quindi normale lo slittamento della realtà cittadina verso qualcosa di astratto e impalpabile. Il senso di appartenenza gradualmente si esaurisce. L’identità di una città, e quindi di coloro che la abitano, si disperde e disgrega a causa dello sfiguramento demografico, architettonico, sociale. Quello che vale per le città, vale naturalmente per gli Stati. Non esistono confini né frontiere reali, non esistono distinzioni e tutto è diventato valutabile secondi astratti canoni economici.
In questa che è la realtà quotidiana della maggior parte degli europei oggi, il senso di appartenenza viene meno. Il fondamentale istinto territoriale viene estirpato dai processi universalistici e, con lo sradicamento, si ha anche uno svuotamento della forza. Oggi si elogiano ovunque i deboli, gli arrendevoli e gli insicuri e le caratteristiche autentiche dell’uomo virile e virtuoso sono messe in secondo piano se non discreditate. Alla forza tranquilla si sostituisce l’arroganza, alla cultura si sostituisce il nozionismo take-away. Un uomo che non senta di appartenere a niente e a nessuno – magari neppure a se stesso – non ha identità e non ha doveri. Questo uomo, che riflette i caratteri della maggioranza delle persone oggi, crede di essere libero perché tutto gli è concesso, ma è soltanto un cagnolino impotente a cui è stato tolto anche il ruolo di guardiano della casa e del suo padrone. È un cane che non serve a nulla.
Perciò la protezione della città e della popolazione è demandata alle forze dell’ordine e alle cure dello Stato. Ovunque la gente si lamenta di questo e di quello e tutti saprebbero fare di meglio degli apparati burocratici incaricati di occuparsi della vita di ognuno, ma nessuno fa niente perché nessuno ha il coraggio o la forza interna e fisica per farlo. Basterebbe molto poco per cortocircuitare il sistema imperante, il suo controllo pervasivo e il suo condizionamento. Bisognerebbe però assumersi le proprie responsabilità agire attivamente, sorgere come uomini e guerrieri.



Esistono ancora cittadelle costruite all’interno della cinta muraria di fortezze medievali. Attorno al perimetro collinare scorrono sottili torrenti e ponti di legno e pietra collegano i punti chiavi della cittadina con l’esterno. Le mura delimitano, proteggono e racchiudono una ricchezza identitaria fatta di storia, cultura, fatti d’arme. L’istinto immediato è quello di percepire una grande coesione, il pulsare di una vita autentica nelle vie di acciottolato e nelle piazze su cui dominano i campanili e i bastioni turriti. Anche le abitazioni rispecchiano questa realtà contenuta e ristretta, i tetti rispettano l’altezza delle torri di guardia e la vita quotidiana assume un ritmo sconosciuto alle città più grandi e dispersive. Forse è solo un’illusione momentanea, o il richiamo romantico di epoche andate, eppure l’estetica e la potenza delle cinta murarie trasmettono ancora un senso di radicamento territoriale assente altrove.
La fortezza è il simbolo della grandezza europea. In essa si riuniscono l’autorità, la forza, l’ingegno e l’arte che dominano le campagne circostanti. La forza militare che la domina è una forza appartenente al territorio, gli uomini in armi sono i difensori del perimetro e i garanti della prosperità cittadina. Già Platone assegnava ai Guardiani un ruolo fondamentale, allo stesso modo le milizie medievali conservarono un peso politico decisivo. L’uomo in armi, quale sia il suo rango, è l’uomo che ha potere, è l’uomo che può decidere e modificare la realtà delle cose. L’uomo disarmato dipende dagli altri, è in balia degli eventi. Il margine reale di libertà di ciascuno si misura quindi nel grado di indipendenza dall’autorità costituita, dalla capacità e dalla volontà cioè di fare da sé, di difendere il proprio territorio e la propria libertà. Forza e virtù sono appaiate.

La realtà più concreta e viva a cui l’uomo di oggi possa sentire di appartenere è la propria comunità di simili, la propria famiglia, il clan. Nella società globalizzata e senza confini, è nel ristretto e nel limitato che si può riscoprire l’autentico legame, l’identità profonda e una forza solidale e vitale. Una comunità costruita sull’esercizio della disciplina interiore e fisica, radicata in un luogo custodito e difeso gelosamente. Si comprende allora il senso dell’abitare una fortezza o un bastione che, come un faro, si staglia su una realtà quotidiana grigia e disgregata. Una moderna fortezza con le sue leggi e i suoi ordini, l’origine di una realtà differente dall’attuale, una crepa nel grigiore monolitico del mondialismo dominante.


lunedì 27 gennaio 2014

Rito e appartenenza




Im Anfang war die Tat
Goethe, Faust

Accade spesso di considerare la propria esistenza – non: vita – come una noiosa ripetizione di cose già fatte. Così la parola week-end assume un significato tutto particolare, in sé sembra custodire una ricchezza quasi inesauribile di possibilità, svago, rottura della routine. Il lavoro, per chi lo ha, diventa una catena in cui non ci s’inserisce come un forte anello dal fondamentale ruolo di collegamento a fianco degli altri, ma come polvere ferrosa senza alcuna funziona effettiva. Perciò si cercano la “liberazione”, la fuga e il divertimento.
Eppure neanche gli svaghi del fine settimana, le notti bianche, i locali notturni, i grandi eventi sportivi, le vacanze costose e quant’altro bastano a colmare la inesauribile sete di relax e distrazione dell’uomo del XXI secolo. Cosa c’è di sbagliato in tutto questo? Perché questa insoddisfazione, nonostante la vasta scelta e la libertà da ogni vincolo?
Qualsiasi essere umano che abbia riflettuto ad un certo punto sulla propria condizione si sarà reso conto di sentire la mancanza di qualcosa di profondo, reale, concreto e duraturo – un qualcosa che non può essere fornito dal centro commerciale di fiducia o dal barman di turno. Questo qualcosa è il ruolo comunitario a cui ciascuno, in fondo, aspira. Avere un ruolo significa avere una funzione, avere una funzione significa avere doveri e responsabilità; avere doveri e responsabilità significa dover rispettare regole e leggi, spesso non scritte.
La ricerca scomposta dello svago e del tempo libero più che una conquista è una perdita, una caduta. Per l’uomo antico, come anche per quello medioevale, riposo e divertimento erano parte integrante di una precisa scansione temporale ciclica, all’interno della quale il lavoro e la tradizione erano pilastri portanti. Se oggi si fa un gran parlare di diritti di ogni genere, l’autentico spirito europeo si è nutrito di doveri, piccoli e grandi compiti da assolvere, obbiettivi da raggiungere – anche impiegando generazioni.
La scadenza temporale delle festività della fertilità o le rappresentazioni tragiche elleniche, per esempio, erano momenti fortemente rituali, in cui la comunità dei pari si riuniva e si ritrovava nel rispetto delle consuetudini tradizionali e delle leggi non scritte della comunità. In questo modo si riannodavano i legami di solidarietà, la memoria delle proprie radici nel mito originario e si dava nuovo vigore alla volontà operativa del popolo.
L’incapacità dell’uomo di oggi di reggere lo stress ne dimostra a tutti gli effetti la debolezza e l’inadeguatezza. È l’erede delle lotte sociali, delle battaglie per i diritti, dell’utopia dell’uguaglianza globale e della diffusione capillare della tecnologia, ma è incapace di reggere responsabilità e fatica senza il supporto di medicinali, psichiatri e personal coach. A cosa sono servite le battaglie per i diritti? Cosa resta nelle mani degli europei quando la marea del benessere consumistico si ritira? Sulla sabbia restano solo i gusci di un’eredità sepolta e sbiadita che possono e devono essere ricostruiti e resi nuovamente vivi, affinché si torni a vivere in accordo alla natura virile sorta dall’aurora europea.
L’illusione assai diffusa è che la libertà consista nel poter fare ogni cosa quando lo si desidera, senza doverne pagare le conseguenze. Qualcun altro si prenderà la responsabilità dell’errore. Il vuoto lasciato da questa concezione della libertà è però evidente e fortemente diffuso. L’autentica libertà è qualcosa di diverso da quanto oggi si crede, la libertà si realizza dell’orgoglio del proprio ruolo e della propria responsabilità, nella ricerca costante della virtù.
Abilità, conoscenza, responsabilità, intuito sono tutte parti di un mosaico che compone l’azione concreta ed efficace. L’uomo europeo è l’uomo d’azione, perché nell’agire egli realizza la sua capacità creativa e operativa, il suo grande orgoglio è la sua opera. Perciò l’inoperosità e l’ozio a cui nel XXI secolo invitano la TV e le giornate al centro commerciale sono l’esempio lampante dello sradicamento dalla realtà vitale dell’essere umano e del mondo.
L’essere autentico dell’uomo deve addestrarsi alla tensione, rafforzando le proprie debolezze, smussando la pigrizia, mettendo a tacere il disfattista che è sempre in agguato in ogni persona. Ridurre all’essenziale i propri bisogni, raffinare e indurire il proprio essere, giungere al nucleo vitale e pulsante della vita e comprendere così a fondo e realmente il proprio compito, il proprio destino, per conquistare la libertà virtuosa del dovere.
Ogni essere umano è un anello in una catena. Ogni catena è forte quanto il suo anello più debole. Perciò ciascuno che sia parte di una comunità dovrà addestrarsi alla forza, al miglioramento di sé. Imparare ad essere lucidi e operativi al massimo grado sotto pressione, autocontrollo e disciplina. La libertà sorge dal controllo di sé e dei propri bassi impulsi. Così si comprenderà il significato dell’azione che crea l’opera.
Il significato dell’azione è spiegato dal mito. Il mito autentico fonda la visione del mondo di un popolo e fornisce i significati alle idee e alle parole, apre alla comprensione dell’ambiente circostante. In ogni mito l’eroe fondatore (Beowulf, Sigfrido, Eracle, Achille, Enea, Chuculainn, Aragorn, Conan, Harlock, Faust, Macbeth…) agisce e si fa carico della piena responsabilità delle proprie azioni. Se così non fosse non assolverebbe la propria missione, se così non fosse non avrebbe destino. In tal modo il mito diventa l’eredità primordiale della civiltà di riferimento, su di esso sorgono città e villaggi, regni ed eserciti. Attorno ai significati espliciti e reconditi del mito originario si raccolgono le norme non scritte che dettano per secoli la vita comunitaria. Quando la memoria va esaurendosi e i tempi declinano, allora nasce l’autentica scrittura che primariamente è affare religioso e rituale, opera di tradizione, cioè di conservazione e ripetizione del racconto fondativo che rischia di essere dimenticato.
È chiaro dunque che l’azione è prima di tutto un rito. Nel rito si raccolgono significato e significante, memoria e attualità. Ogni azione richiama, in qualche modo, il significato antico e primitivo tramandato dal mito. Solo la distorsione del linguaggio e la dispersione dell’autentico senso delle cose può provocare l’offuscamento e lo smarrimento dell’autentica azione.
La ricerca scomposta della distrazione mette davanti agli occhi la realtà dei fatti: il vuoto di senso. La risposta a quale sia il proprio ruolo e il significato della propria vita è, nella stragrande maggioranza dei casi, mancante. Affinché nuovi legami si stringano e nuovi (ma antichi) significati tornino a dare forza e spinta all’essere umano, è necessario che i fuochi dell’antico asse mitico europeo tornino ad ardere. In quanto è stato tramandato e che ancora viene custodito nascostamente nel linguaggio (pensiero e azione), sopravvivono le radici primordiali. Nel rito e nel simbolo l’uomo ritrova significati autentici e l’unione comunitaria e solidale di cui sente il bisogno. Nell’azione rituale si creano le condizioni per uno stile di vita estraneo a quello attuale, una cerchia di uomini legati tra loro da lealtà e riuniti attorno a un simbolo e alla stessa visione del mondo.
Questi sono sempre stati i fuochi da cui hanno avuto origine le nazioni e le civiltà. Sangue e suolo.