lunedì 19 gennaio 2009

La fine della filosofia



Filosofia è metafisica. La metafisica è la storia del pensiero che pensa l’Essere dell’ente ma dimentica di pensare l’Essere nella sua verità come radura dell’aprentesi/celarsi. Dimentica cioè che l’ente può essere soltanto perché originariamente vi è un’apertura in cui può essere. La metafisica è il nichilismo autentico, nel senso che la metafisica è il nascondimento dell’Essere conforme alla verità (αλήθεια) dello stesso. Il problema decisivo è che la metafisica non può pensare l’essenza della metafisica e quindi non può raggiungere il suo compimento. Così la storia dell’Essere giunge al compiersi del nichilismo come oblio del nascondimento: la metafisica, non potendo comprendersi nella sua verità essenziale, crede di pensare l’Essere ma dimentica, primariamente, di interrogarsi sulla sua verità.
Soltanto abbandonando la filosofia in quanto metafisica è allora possibile portare a pieno compimento la metafisica e superarla. È necessario un raccoglimento del pensiero che uscendo dalla prospettiva metafisica prepari lo slancio verso l’ad-venire nell’autenticità dell’Essere. Heidegger afferma che alla filosofia deve subentrare un pensiero della semplicità che domandi soltanto attorno a ciò che è degno di essere saputo. «Il pensiero a venire non è più filosofia perché pensa in modo più originario della metafisica» (Heidegger, Lettera sull'umanismo). Solo superando la metafisica sarà possibile superare il nichilismo. È al termine della metafisica che si rende finalmente comprensibile la dimenticanza dell’Essere e torna quindi possibile un domandare genuino.
La fine della filosofia significa la realizzazione di tutte le sue possibilità; la fine è il raccoglimento delle sue possibilità estreme. La fine della metafisica si realizza nell’organizzazione tecnico-scientifica della civilizzazione euro-occidentale. Ma nella fine non c’è soltanto l’ultima possibilità, si fa presente anche la prima ed iniziale possibilità che la filosofia, in quanto tale, non poté assumere su di sé.
Lungo tutta la storia della filosofia che fino a Hegel, Nietzsche e Husserl, la Cosa a cui si rivolge il pensiero è la soggettività attraverso cui la cosa diviene presente. Nel richiamo alla Cosa però resta qualcosa di impensato che non può essere cura della filosofia interrogare. L’ente si mostra in un chiarore, chiarore che a sua volta presuppone una radura (Lichtung) che esso attraversa. L’apertura è ciò che concede un dare e un accogliere, ma è anche ciò che cela e custodisce. Nonostante agli inizi della filosofia la radura come esser-presente venga nominata (φύσις), questa resta comunque impensata poiché il lume della ragione rischiara solo ciò che è già aperto, ma non può creare le condizioni dell’aprirsi svelante.
Eppure già in Parmenide s’incontra l’αλήθεια la «ben rotonda svelatezza» intesa come un attorniare dove l’inizio coincide con la fine. «La radura rende possibile prima di tutto il sentiero che porta alla presenza e concede a quest’ultima di presentarsi» (Heidegger, La fine della filosofia e il compit del pensiero). L’αλήθεια, che però viene nominata all’inizio della filosofia, resta comunque non pensata anche a causa della sua resa con “verità”, che va poi a coincidere con il concetto di certezza e adeguatezza alla rappresentazione. In realtà è solo il significato di svelatezza che restituisce il senso autentico e permette di risalire al fatto decisivo che ogni certezza s’inserisce inizialmente e necessariamente all’interno della radura della presenza. Esperito e pensato è dunque solo ciò che l’apertura della radura concede. Che cosa sia la s-velatezza resta nascosto. Non soltanto per l’insufficienza della ragione, ma soprattutto perché il velarsi stesso appartiene all’αλήθεια.
Il pensiero essenziale ha allora, nell’epoca del nichilismo compiuto e della realizzazione della metafisica nelle sue ultime possibilità, il compito di domandare di ciò che rimane impensato ed è il più semplice. Così facendo il pensiero ricostruisce il legame con l’origine senza la quale un popolo non conosce la sua verità storica. «Quando poniamo nuovamente la domanda fondamentale della filosofia occidentale in base a un inizio più originario, siamo al servizio di quel compito che abbiamo definito come salvezza dell’Occidente. Esso può compiersi soltanto come riconquista dei rapporti originari con l’ente stesso, e come una nuova fondazione di tutto l’agire essenziale dei popoli rispetto a questi rapporti» (Heidegger, L'Europa e la filosofia tedesca).
Il rapporto che il pensare deve intrecciare con la verità dell’Essere non ha nulla a che vedere con un’impostazione soggettivistica. Questa ritornerebbe a essere una condizione metafisica e incapace di ac-cogliere l’Essere nel suo disvelamento. La vera conoscenza dell’Essere è un com-prendere in cui l’Essere concede ed apre la condizione in cui l’Esserci si trova da sempre calato, ed è un com-prendere perché l’Esserci a sua volta dà ascolto alla chiamata dell’Essere, si rivolge a lui concedendogli di aprirsi nella presenza. «Interrogare in modo autentico significa entrare in accordo armonico con ciò che viene interrogato» (Steiner).
La fine della metafisica, beninteso, non implica già di per sé un darsi dell’Essere nella su verità e un suo coglimento. La fine della metafisica mostra la possibilità prima che resta ancora inesaudita e che quindi ad-viene nell’avvenire come dimensione dell’autenticità storica destinale. «La conclusione della metafisica non può significare in nessun modo la fine dell’oblio dell’essere nel senso che l’essere diventi finalmente come tale oggetto di pensiero esplicito» (Vattimo).