venerdì 14 novembre 2008

Sul primitivismo



commento a un post di http://nazional-anarchismoitalia.blogspot.com

Riguardo all'anarco primitivismo, sorgono due problemi di fondo. Il concetto di alienazione e l'idealizzazione del passato primordiale.
Alienazione è un falso concetto, pretende di essere "originario" e "scientifico" ma non lo è affatto. Il concetto di alienazione presuppone un'idea metafisica dell'uomo come esso dovrebbe essere - e non è più. Ma chi lo decide? Marx? Zerzan? Manca un'indagine originaria autentica, se vogliamo tradizionale o ontologica, dell'essere uomo storico. Perciò il fondamento su cui Zerzan - autore peraltro affascinante ma utopico - costruisce la sua dottrina è debole. Alienazione è un concetto non "scientifico" né "universale". Alienazione per me è una cosa del tutto differente dalla sua e la metafisica che questo concetto di derivazione marxiana presuppone è quanto di più anti-umanizzante esista. Esso stradica l'uomo dalla sua vita vissuta e istintiva, arrestandolo in una metafisica concettuale e pseudo-scientifica ad uso politico e propagandistico. Fai bene a precisare: ricordiamo che siamo uomini. L'uomo è sin dalle origini creatore e costuttore.
L'antropologia dice che l'uomo è diverso dagli animali perchè non ha tattiche di difesa e sopravvivenza innate. Perciò, se vuole vivere, deve crearsele. Leggi armi, fuoco e aratro. Diversamente, l'uomo sarebbe estinto da millenni, come chissà quante altre specie. L'istinto umano è la possibilità di scegliere i suoi istinti vitali. Cultura significa quindi mettere in ordine questa molteplicità di istinti accessibili (cfr. Gehlen, Spengler).
Di conseguenza, l'idea di una società anti e pre-tecnologica alla Zerzan risulta impraticabile. Primo perchè non tiene conto che senza le attuali tecnologie la stragrande maggioranza della popolazione mondiale morirebbe - il che sarebbe anche accettabile da una prospettiva radicalmente primitivsta ed ecologista, ma allora è più coerente Linkola. In una società di sussistenza il cibo non è disponibile per tutti. Se i miliardi di persone attuali sproofondassero in uno stadio pre-tecnologico primitivo i danni all'ecosistema sarebbero immensamente maggiori di quelli attuali! Danni enormi alla fauna e alla flora, assediate da orde di affamti che non possono più trovare il cibo nei supermercati e nei negozi. Le condizioni attuali non permettono dunque, a meno di un enorme diminuzione della popolazione umana, un ritorno a società senza tecnologie e basate su caccia e sussistenza.
In secondo luogo gli anarcoprimitivisti si creano una sorta di visione irrealistica della società dei primordi e dell'uomo primitivo. Nessuno oggi potrebbe sopravvivere in quelle condizioni. Come un aborigeno non riesce a vivere in una città, così un uomo della città nel 90% dei casi, se lasciato solo nella giungla, morirebbe. Non sarebbe neppure un male di per sè, si insisterebbe in una situazione di selezione naturale e conflitto, ma allora il discorso si fa ben più radicale e serio rispetto al ritorno al "paradiso in terra" dei primitivisti.
Saranno anche primitivi, ma il computer lo usano.
La tecnologia è un prodotto della natura umana, essa richiede non tanto un rifiuto, ma un nuovo tipo di uomo.
Un ultimo appunto: ben più seria e radicale mi pare la sfida stirneriana. E' quasi eroica quando dice: io ho costruito la mia causa sul nulla. Come a dire: se faccio piazza pulita di tutto, cosa resta? Chi sono io? Cosa voglio essere? In questo caso uno viene messo con le spalle al muro e inizia un lavoro prima di tutto su se stesso. Una sorta di Fight Club ante-litteram.

lunedì 27 ottobre 2008

Diluvio umano - Linkola



[ tradotto dal finlandese da Harri Heinonen e da Michael Moynihan ]
[trad. italiana B. F. e A. Venanzoni]


Pentti Linkola propone forse i pensieri più pericolosi che l'umanità abbia mai considerato? O è l'ultima voce saggia rimasta su questo pianeta? Vivendo un'esistenza ascetica come pescatore in una isolata regione rurale della sua patria, il filosofo finlandese ha affrontato faccia a faccia la questione del posto occupato dalla specie umana nella terra che abita, e ha osato affermare l'indicibile.
Affinché il pianeta continui a vivere, l'uomo - o homo destructivus, come Linkola lo chiama - deve ridursi violentemente a una semplice frazione della sua attuale popolazione globale. La metafora del Linkola per quanto scrive è questa: "Cosa fare, quando una nave che trasporta cento passeggeri si rovescia improvvisamente e soltanto una lancia di salvataggio, con spazio per soltanto dieci persone, è stata sganciata? Quando la lancia di salvataggio è piena, coloro che odiano la vita proveranno a caricarla con più gente e ad affondare la scialuppa. Coloro che amano e rispettano la vita prenderanno l'ascia della nave e taglieranno le mani che si aggrappano ai lati della barca." Mentre il tempo procede in avanti, le previsioni e gli atti d'accusa del Linkola si fanno più arditi. Si è reso conto che le situazioni estreme richiedono soluzioni estreme."
Abbiamo ancora una possibilità di essere crudeli. Ma se non siamo crudeli oggi, tutto è perduto". Nemico giurato di cristiani e umanisti, Linkola sa che il destino della terra non sarà mai salvato da coloro che esaltano "la tenerezza, l'amore e le ghirlande di fiori". Né le popolazioni sviluppate né quelle sottosviluppate del pianeta si meritano di sopravvivere a scapito della biosfera tutta. Linkola ritiene urgente che milioni muoiano di fame o siano presto massacrati in guerre civili genocide. Gli aborti obbligatori dovrebbero essere effettuati per tutte le femmine che abbiano più di due parti. Gli unici paesi capaci di dare inizio a tali misure draconiane sono quelli occidentali, che sono però ironicamente quelli più frenati dalle dannose nozioni dell'umanismo liberale. Come spiega Linkola:"gli Stati Uniti simboleggiano la peggiore ideologia nel mondo: sviluppo e libertà". La realistica soluzione va cercata nella realizzazione di un regime eco-fascista dove brutali battaglioni di "polizia verde", liberate le loro coscienze dall'"etica dello sciroppo", siano capaci di fare tutto ciò che è necessario. In Finlandia, i libri del Linkola sono best-sellers. Il resto del mondo non può chiaramente il suo tipo di medicina, come è risultato evidente quando il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo su Linkola nel 1995. Una pila di lettere d'odio è venuta dai cristiani del porgi-l'altra-guancia, madri affettuose e addolorati benefattori. Un lettore ha protestato, "i sinceri fautori dello spopolamento dovrebbero dare l'esempio per tutti iniziando da se stessi". La risposta del Linkola è molto più logico: "se ci fosse un tasto che potessi premere, sacrificherei me stesso senza esitazione, se ciò significasse la morte di milioni di persone". Quello che segue è il più importante testo di Linkola ad essere tradotto in inglese. È un capitolo dal suo libro del 1989 Introduzione al pensiero degli anni '90.


Che cos'è l'uomo? "Oh, chi mai sei tu Uomo?" usavano chiedere i poeti dei tempi andati. L'uomo può essere definito in molti modi, ma per delineare la sua più significativa caratteristica, può essere descritto in una parola: troppo. Io sono troppo, tu sei troppo. Siamo 5 miliardi - un numero assurdo, enorme, e sempre in aumento... La biosfera della terra potrebbe sostenere una popolazione di cinque milioni di mammiferi, dando loro il cibo necessario e le frattaglie che producono, così che possano esistere nella loro nicchia ecologica, vivendo come una specie fra molte, senza danneggiare la ricchezza di altre forme di vita.
Che significato hanno queste masse, che utilità hanno? Quale nuovo significativo contributo è portato al mondo dalle centinaia di società umane simili l'una all'altra, o dalle centinaia di identiche comunità esistenti presso queste società? Che senso ha il fatto che ogni piccola cittadina finlandese abbia la stessa varietà di officine e negozi, un simile coro di uomini e un simile teatro municipale, tutti intasanti la superficie della terra con le loro fondamenta e lastre di asfalto? Costituirebbe una perdita per la biosfera - o per l'umanità stessa - se l'area di Äänekoski non esistesse più, e invece in questo stesso luogo ci fosse un irregolare e vario mosaico di paesaggi naturali, contenente migliaia di specie e declinante in pendii di alberi antichi e primitivi, e finendo con lo specchiarsi sulla superficie liscia del lago Kuhmojärvi? O sarebbe realmente una perdita se un piccolo gruppo di cittadine sparisse dalla mappa - Ylivieska, Kuusamo, Lahti, Duisburg, Jefremov, Gloucester - e la selva le sostituisse? Cosa dire riguardo il Belgio? Che utilizzo facciamo di Ylivieska? La domanda non è particolarmente raffinata, ma è rilevante.
E l'unica risposta non è che, forse, non hanno utilità questi posti - ma piuttosto che la gente della città di Ylivieska ha un suo motivo: vive là. Non sto semplicemente parlando dell'inaridimento della vita dovuto all'esplosione demografica, o che la vita e il ritmo respiratorio della terra soffrano per le feconde, metaboliche oasi verdi di cui hanno ovunque un urgente bisogno, fra le zone segnate dall'uomo. Io voglio dire inoltre che l'umanità, schizzando e partorendo da se stessa tutte queste sbavanti moltitudini produttrici di sporcizia , nel processo soffoca e infama la sua stessa cultura - un qualcosa in cui gli individui e le comunità devono spasmodicamente cercare il "senso della vita" e creare un'identità per se stessi attraverso semplici discussioni infantili. Ho speso un'estate viaggiando in Polonia in bicicletta. È un bel paese, dove piccoli bambini cattolici, deliziosamente carini, quasi interamente vestiti in seta, sbucavano da ogni angolo. Leggo da un opuscolo di viaggio che in Polonia la percentuale di popolazione perita nella seconda guerra mondiale è stata più alta di ogni altro paese - circa sei milioni, se la mia memoria non m'inganna. Da un'altra parte nell'opuscolo ho calcolato che dalla conclusione della guerra, l'aumento della popolazione ha compensato la perdita di almeno tre volte nell'arco di quarant'anni...
Nel mio viaggio successivo, sono stato nella città maggiormente bombardata al mondo, Dresda. Era terrificante nella sua bruttezza e sporcizia, martellata fino al soffocamento - un nido inquinato e riempito di fumo, in cui la prima impressione spontanea era che un'altra vaccinazione dal cielo non avrebbe fatto alcun danno. A chi mancano tutti i morti della seconda guerra mondiale? A chi mancano i venti milioni giustiziati da Stalin? A chi mancano i sei milioni di ebrei? Israele soffre di sovrappopolamento, in Asia minore la sovrappopolazione genera lotte per dei miseri metri quadri di sporcizia.
Le città nel mondo intero sono state ricostruite e riempite fino al limite di gente diverso tempo fa, le loro chiese e i monumenti ristrutturati di modo che la pioggia acida abbia qualcosa di cui nutrirsi. A chi manca l'inutilizzato potenziale procreativo di tutti i morti nella seconda guerra mondiale? Il mondo sente forse la mancanza di altre cento milioni di persone, al momento? Vi è scarsità di libri, canzoni, film, cani in porcellana, vasi? Non sono sufficienti un miliardo di abbracci materni e un miliardo di nonne dai capelli argentei? Tutte le specie hanno una capacità riproduttiva sovradimensionata, altrimenti rischierebbero di estinguersi in tempi di crisi, a causa del variare delle circostanze. Alla fine è sempre la fame che costringe a osservare un limite alla dimensione di una popolazione. Un gran numero di specie hanno meccanismi autoregolatori di controllo delle nascite che prevengono la caduta in situazioni di crisi e sofferenza per fame. Nel caso dell'uomo, tuttavia, tali meccanismi - una volta trovati - sono semplicemente deboli e inefficaci: per esempio, l'infanticidio su piccola scala praticato dalle culture primitive. Durante il suo relativo sviluppo evolutivo, il genere umano ha sfidato e allontanato la linea della fame. L'uomo è stato un selezionatore davvero esagerato e decisamente animalesco. L'umanità produce nello specifico grandi figliate sia in condizioni difficili e sfavorevoli, come ovviamente presso i segmenti più prosperi della popolazione. Gli umani si riproducono abbondantemente nei tempi di pace e ancor di più nell'immediato dopoguerra, per un particolare carattere di natura. Si può dire che i metodi difensivi dell'uomo sono senza efficacia rispetto alla fame nel controllo della crescita demografica, ma i suoi metodi offensivi per spingere la linea della fame lontano dalla popolazione in crescita sono enormemente efficaci.
L'uomo è estremamente espansivo - fondamentalmente in quanto specie. Nella storia del genere umano noi testimoniamo la lotta disperata della Natura contro un errore della sua propria evoluzione. Un antico e precedentemente efficace metodo di contenimento, la fame, iniziò gradualmente a perdere la sua efficacia, mentre progredirono le abilità tecnologiche dell'uomo. L'uomo aveva emancipato se stesso dalla sua nicchia e iniziò a prendere più e più risorse, spostando altre forme di vita. Allora la Natura comprese la situazione, capì di aver perso il primo round e cambiò strategia. Utilizzò un'arma che non era stata capace di impiegare quando il nemico era sparso in numeri contenuti; ma che ora era tanto più efficace contro la densa proliferazione delle truppe nemiche. Con l'aiuto dei microbi - o "malattie infettive" come l'uomo le chiama, nel linguaggio della sua propaganda - la Natura combatté testardamente per due mila anni contro l'umanità e realizzò molte vittorie brillanti. Ma questi trionfi rimasero localizzati, e sempre più ineluttabilmente hanno assunto il sapore di azioni di retroguardia. La Natura non era stata capace di distruggere il grado di umanità a cui gli scienziati e i ricercatori avevano lavorato, e nel frattempo erano riusciti a privare la Natura del suo arsenale.A questo punto, la Natura - non possedendo più le armi per ottenere la vittoria, ma ancora assolutamente vitale e conservando la sua autostima - decise di concedere una vittoria di Pirro all'uomo, ma nel senso più assoluto del termine. Durante l'intera guerra, la Natura mantenne la sua particolare connessione col nemico: entrambi si erano divisi le stesse fonti di rifornimento, bevendo dagli stessi ruscelli e mangiando dagli stessi prati. Senza riguardo al corso della guerra, una permanente condizione di legame prevalse a questo punto; per il tempo che il nemico non riuscì a conquistare le risorse per sé, la Natura ugualmente non ebbe la capacità di prenderle dalle grinfie dell'umanità. L'unica opzione rimasta era la politica della terra bruciata, che la Natura aveva già conosciuto in piccola scala durante la fase microbica della guerra, e che decise di condurre alle estreme conseguenze. La Natura non si è arresa alla sconfitta - l'ha chiamata un pareggio, ma al prezzo dell'autosacrificio. L'uomo non era, dopo tutto, un esterno, autonomo nemico, ma piuttosto il suo stesso tumore. E il destino di un tumore prevede che muoia con il suo stesso ospite. Nel caso dell'uomo - che siede al vertice della catena alimentare, e tuttavia manca dell'abilità di ridurre sufficientemente l'aumento demografico - potrebbe sembrare che la salvezza si trovi nella tendenza all'uccisione del vicino. L'istituzione tipicamente umana della guerra, con il relativo massacro di umanoidi, sembrerebbe contenere una base per l'auspicabile controllo della popolazione - così è, se non portentosamente contrastato, poiché non vi è cultura umana in cui le femmine giovani partecipino alla guerra. Quindi, persino una grande diminuzione di popolazione come conseguenza della guerra interessa soltanto i maschi, e dura per un periodo veramente ristretto in una generazione. La generazione successiva è più forte, e per la legge naturale del "boom delle nascite" è persino più numerosa, mentre le femmine sono fecondate da un numero ristretto di maschi. In realtà, l'evoluzione della guerra, poichè difettosa, è stata ancor più negativa: nelle fasi iniziali del suo sviluppo vi erano molte guerre di un tipo che spazzavano via un moderato numero di civili. Ma per una tragicomica contorsione dell'umano destino, al punto stesso in cui l'istituzione della guerra è sembrata capace di portarsi via quantità significative di donne fertili - come preannunciato dai bombardamenti di civili nella seconda guerra mondiale - la tecnologia militare è avanzata in modo tale che le guerre in larga scala, quelle con la capacità di provocare un sostanziale impatto demografico, sono divenute impossibili.

lunedì 6 ottobre 2008

Le sei regole del Cuib - Codreanu



Le sei regole del CUIB

1) La legge della disciplina: sii legionario disciplinato, perchè solo in questo modo sarai vittorioso. Segui il tuo capo nella buona e nella cattiva sorte.
2) La legge del lavoro: lavora. Lavora ogni giorno. Lavora con amore. Ricompensa del lavoro ti sia non il guadagno, ma la soddisfazione di aver posto un mattone per la gloria della Legione e per il fiorire della Romania.
3) La legge del silenzio: parla poco. Parla quando occorre. Di' quanto occorre. La tua oratoria è l'oratoria dell'azione. Tu opera, lascia che siano gli altri a parlare.
4) La legge dell'educazione: devi diventare un altro. Un eroe. La tua scuola, compila tutta nel Cuib. Conosci bene la Legione.
5) La legge dell'aiuto reciproco: aiuta il tuo fratello a cui è successa una disgrazia. Non abbandonarlo.
6) La legge dell'onore: percorri soltanto le vie indicate dall'onore. Lotta e non essere mai vile. Lascia agli altri le vie dell'infamia: Piuttosto che vincere per mezzo di un'infamia, meglio cadere lottando sulla strada dell'onore".

Tratto da: "La guardia di Ferro" - Codreanu

venerdì 19 settembre 2008

Sangue e suolo - R. Walther Darre



Sangue e Suolo

Il binomio di sangue e di suolo si connette a quanto, nella tradizione occidentale, ebbe senso di fedeltà alle origini, chiarezza, semplicità, compostezza e purità incontaminata.

I valori del sangue e del suolo rivestirono un'importanza fondamentale nell'Eliade luminosa dei Dori, nella Roma primordiale dei patres e in quella guerriera e rurale del periodo repubblicano, nell'ordinamento feudale del Sacro Romano Impero.
Concepito come simbolo di una realtà corporea che è stata rimossa dalla sua «naturalità» ed è divenuta — in una unità assoluta di spirito, anima e corpo — espressione Vivente dell'elemento spirituale, il sangue veniva inteso come il veicolo di influenze superiori: ad esso corrispose — nell'ambito dello Stato — il ceto aristocratico quale vertice e guida politica.
Riserva e « fonte di vita » (per usare l'espressione del Darrè) dell'aristocrazia fu il contadinate fedele alla terra e radicato nel suolo: esso costituiva la base sociale ed economica dello Stato.

In alternativa al tipo d'uomo indifferenziato, apolide, sradicato democratico e meticcio che caratterizza l'epoca borghese, le parole d'ordine sague e suolo rappresentano dunque le condizioni imprescindibili per un'autentica « restaurazione dell'umano ».


PREMESSA
La presente opera è la logica conseguenza dei principi fondamentali esposti nel mio libro: Il Contadinato, fonte vitale della Razza Nordica, e mi propongo di fornire qui degli orientamenti per questo « Impero Tedesco dei Tedeschi » verso il quale tendono tutti gli sforzi del III Reich.

Certi si stupiranno di vedermi studiare degli orientamenti per una Aristocrazia terriera e non per la massa dei contadini, ma se esiste nella parola Nobiltà una differenza di rango tra il ceto nobiliare ed il contadinate, entrambi erano incorporati, nel vero senso germanico della parola, dai Germani nel medesimo ceto terriero, pur con doveri diversi — per cui non esiste tra di loro alcuna differenza di fondo.
Questo libro ha come scopo essenziale quello di mettere in luce tale identità, e soprattutto di dimostrare che la distinzione tra Nobili e Contadinato, così come si ricava dalla storia della Germania a partire dal Medio Evo, è profondamente non germanica e di conseguenza profondamente non tedesca.

Il barone Borries von Munehhausen, con un'idea molto chiara dell' anima tedesca, ha sentito perfettamente che cos'è la nostra Nobiltà, o almeno che cosa dovrebbe essere; e l'ha esposto nei versi seguenti:

CHE COSA SIAMO!
Nati per l'elmo e lo scudo,
Per essere la sicurezza del Paese,
Per essere Ufficali del Re,
Fedeli ai nostri antichi costumi
In mezzo ai nostri contadini:
Ecco che cosa siamo!
Coltiviamo le nostre terre,
Preserviamo le nostre foreste
Per i nostri figli ed i nostri nipoti.
Ridete pure degli antenati!
Essi sono i custodi dei soli beni
Che il denaro non vi può dare.
In mezzo ai traffici e alle mercature
Noi restiamo in piedi, a testa alta,
Da cavalieri incorruttibili.
Con la nostra tranquilla potenza
Conserveremo al nostro Suolo quello che ha di più prezioso:
La forza contadina tedesca.


Definita così la Nobiltà — non come ceto dirigente superiore al Contadinato, ma come un ceto di identica origine che assume, per effetto del comando, oneri e doveri patricolari —, è chiaro che per il bene del Contadinato tedesco dovevo prima considerare la questione dei suoi capi. Capi in grado di assicurare al nostro Contadinato il suo posto nella Nazione, posto che gli è dovuto in virtù del suo duplice compito: nutrire il popolo col sudore della sua fronte e mantenere la purezza del sangue tedesco.

Fino a questo punto può sembrare che la formazione di una nuova Nobiltà rappresenti, per così dire, soltanto la questione di fondare una casta nel quadro delle attività agricole- Ma come i contadini sono la fonte essenziale e primordiale del rinnovamento del sangue del popolo, così l'Aristocrazia, in quanto emanazione dell'elite del contadinate e formante un solo corpo con questo, è destinata — per chi intende il senso germanico delle parole: Contadinate, Popolo, Nobiltà — a dispensare al Popolo intero il frutto naturale della sua azione di comando.
Questo libro è lo schizzo di un progetto ispirato a questo spirito: fondere in un blocco unico la triade: Popolo, Contadinate e Nobiltà. Io mi sono sforzate di formarlo e modellarlo al fine di realizzare un tutto omogeneo. Inoltre ho obbedito a diverse altre considerazioni suggestive: l'idea di ricorrere ad una nuova aristocrazia è oggi più diffusa di quanto si potrebbe credere, nelle attuali condizioni della Germania. Tali concetti si basano specialmente sul nuovo favore che incontra la dottrina dell'ereditarietà e sulla sorprendente rifioritura dell'idea di razza. Ovunque si vedono sorgere piani e progetti per la costituzione di una nuova aristocrazia dirigente — o, altrimenti, per una modifica radicale dell'antica. Da quello che se ne può giudicare, il punto debole di tutti questi piani è la mancanza di una definizione rigorosa dei doveri della nobiltà. Tale argomento viene in genere affrontato solo in maniera unilaterale, il che rende impossibile ogni soluzione funzionale, per quanto siano intelligenti e feconde alcune delle idee proposte.

Questo stato di cose mi ha indotto a riunire infine gli elementi da adottare per la restaurazione di questa nobiltà, e suscitare soprattutto uno sguardo d'insieme della questione, da cui si possa trarre un progetto fondamentale. Io ho mirato ad includervi sia il piano di ricostruzione della Nobiltà tedesca, sia l'aspetto dominante della nozione di Dovere, in maniera da giudicare con chiarezza, sul terreno delle realizzazioni possibili, senza cadere nei voli d'Icaro o nei castelli in aria.

Mi rendo perfettamente conto che le idee che espongo sarebbe impossibile realizzarle senza il ristabilimento della libertà e dell'indipendenza dello Stato tedesco. E' evidente di per sé, ma ci tengo ad 'insistere su questo punto per sottolineare l'inutilità di ogni controversia a tale proposito. L'essenziale è prima di tutto di sapere se il nostro popolo vuole realizzare le soluzioni qui proposte, che d'altronde non rappresentano affatto, nel mio pensiero, una panacea universale. Una volta raggiunta l'intesa su questo punto, ci metteremo poi d'accordo per sapere come.
L'idea di questa opera mi è stata suggerita da una frase del compianto Hans Holfeder, Fùhrer degli Artamani: « Ce n'è da fare, per una nuova Nobiltà! »

Ringrazio il Professore Eichenauer per l'amabilità che ha avuto di rivedere e correggere il manoscritto.
Ringrazio ancora in maniera tutta particolare la famiglia Schultze-Naumburg per l'ospitalità generosa che mi ha dimostrato, permettendomi così di concepire e di realizzare questo libro.

Saaleck, primavera 1930- R. Walther Darre Ingegnere Agronomo e Ingegnere della Scuola Coloniale

sabato 23 agosto 2008

Essere in forma




Lo sport oggi viene concepito come un passatempo, un hobby. Bisognerebbe invece considerarlo, alla maniera degli antichi, come una preparazione alla guerra e al confronto cruento. Come uno sforzo fisico volto al miglioramento delle facoltà mentali e fisiche per una vita vigorosa e volitiva. La meravigliosa forza della mano armata che regge con sicura stabilità la spada, lo sguardo fisso al sole del giavellottista, l'attenzione millimetrica del culturista in panca piana. Cos'hanno questi in comune?
Più di quanto si pensi. Se si vive l'attività fisica col giusto spirito, allora la volontà e la perseveranza diventano delle forze in grado di dare una forma al corpo, di plasmarlo secondo un tipo che si ha di esso. I ventri cadenti, gli sguardi spenti e il colorito pallido sono i primi segni evidenti di una debolezza interiore, di un'incapacità e di un'indisciplina aberrante. Il borghese è oggi sempre più vicino alla informità del verme, mollo fuori e mollo dentro. Ernie e strappi muscolari procurati al solo sollevare una cassetta della frutta, e sopra tutto (o sotto...) una vita estenuata, il vivere per vivere, il "tirare a campare".
A tutto ciò si oppone l'uomo di milizia, nel suo attivismo costante e implacabile, nella sua autodisciplina ferrea e incessante, nel suo mettersi alla prova.
Essere in forma è un concetto abusato e che si associa oramai soltanto all'apparire effeminato tanto di moda. Ma Essere-in-forma significa avere una forma, cioè darsi una forma. Solo la disciplina fisica e la costanza nello sforzo ripagano e plasmano un corpo forte e vitale, pronto e reattivo. Un largo petto, spalle larghe e sguardo sveglio e diritto.
Coltivare il corpo come si fa con un albero venerando, costruire pietra su pietra il corpo come un tempio, abbellirlo e potenziarlo, prepararlo per una dignitosa esistenza vigorosa. Così si onora la stirpe, così si trasmette una "forma", o meglio, un tipo umano.

giovedì 17 luglio 2008

Il fronte è la città



Capita di sentire discorsi di chi esalta scene bucoliche di purezza incontaminata. Chi vive in motagna o in campagna è spesso privilegiato per il fatto di non trovarsi in contatto stretto e insidioso con la modernità ipertecnologica. Perciò chi vive in tali situazioni può condurre una vita in un modo talvolta considerato "più tradizionale", cioè meno contaminato dalle manie della città e dalla tecnologia. Si respira un'aria migliore e si vive con altri ritmi.
Chi non conosce i suoi monti e le tradizioni culturali della propria terra non ha passato né identità, ma l'isolamento non è necessariamente un segno di forza. E' fin troppo facile condurre uno stile di vita "altro" fintanto che ci si tiene fuori da una condizione che potrebbe invece metterci in crisi. Mettersi in gioco, sfidare la propria solidità è invece la vera forza affermativa.
L'isolamento di una vita autoreferenziale è suggestivo ma è conservativo e non attivo, testimonia uno stile di vita che non è più e non sarà probabilmente mai più. E non sarà mai più fintanto che per esso non si combatterà al fronte. E il fronte è la città, non il verde dei monti.
Inoltre cercare di affermare uno stile di vita alternativo a quello conformista attuale costringe a un costante contatto con difficoltà e insidie alle nostre certezze, difficoltà a cui chi si isola e vive altrove non è chiamato ad affrontare.
Ma una tradizione ,un'identità vive negli uomini, non nelle vuote parole e nelle torri d'avorio, perciò è nella lotta che un'affermazione trova la sua conferma e si può consolidare. E' nella massima difficoltà che la forza di volontà e costruzione si consolida, è al fronte che si forgia lo spirito solido e sicuro.
Nel kali yuga si possono raggiungere vette impossibile ad altre ere dice l'induismo.

sabato 21 giugno 2008

Diritto dei popoli?



Si fa un gran parlare del diritto dei popoli all'esistenza e al possesso della loro terra. I ragionamenti attorno a tali questioni hanno molti dell'umanitario e del politicamente corretto, e colgono poco la realtà storica che chiama i popoli a prendere in mano il proprio destino e la propria storia.
E' davvero difficile credere che un numero più o meno ampio di persone, solo perchè vi sono nate, abbia un diritto inalienabile ed indiscutibile alla terra. In realtà nascere su un suolo è storicamente indifferente fintanto che non si prenda coscienza di ciò che si vuole essere, fintanto cioè che non si immagini un progetto secondo il quale dare una forma alla massa umana che si aggrega lì.
Se oggi il "popolo italiano" cessasse di sentirsi padrone del suo territorio nazionale, cessasse di goernarlo e di essere sovrano, cessasse di condividere un comune progetto (che è passato-presente e sopratutto futuro), se smettesse di lottare per la propria esistenza e i propri confini, allora questo "popolo" non avrebbe più alcun "diritto" alla terra che abita. Sarebbe davvero semplice per altre componenti, per altri popoli prendere possesso del territorio e costruirvi una storia del tutto diversa.
Non esiste alcun diritto originario dei popoli alla propria terra, nessun popolo possiede la propria terra finchè non diventa consapevole di ciò che è e vuole essere. Una consapevolezza di questo tipo si guadagna solo attraverso l'identificazione in un mito mobilitante e aggregante; la creazione di un'identità popolare che sappia formare e unire le componenti che occupano un suolo e sappia dar loro una direzione, sappia tracciare un solco su cui proseguire.
Ma una volta guadagnata la terra e una volta consolidato il suo dominio, nulla è scontato e le nuove generazioni devono sempre rinnovare il legame col mito identitario, devono saper attualizzare e portare avanti il senso del progetto che si è indicato nel passato. Perchè la storia non fa sconti e i popoli a-storici sono destinati a perire sotto l'avanzata di nuovi popoli conquistatori assetati di terre su cui regnare.
Continuamente richiamarsi e rinnovare il senso di ciò che gli avi della stirpe hanno segnato, mutando linguaggio e forme, ma mantenendo il senso del gesto creatore e sovrano di allora.
Il popolo che cessa di avere un destino perisce, smette di respirare la sua storia secolare e viene schiacciato dal peso dei secoli e dalla polvere del tempo.

sabato 14 giugno 2008

La sopravvivenza del più adatto



Nietzsche criticava del darwinismo il fatto che non necessariamente le specie qualitativamente migliori riuscissero a garantirsi la sopravvivenza, poichè spesso accadeva piuttosto che fossero quelle più belle e raffinate, a perire nel mondo animale. I bastardini di cane sono capaci di adattarsi a condizioni di vita più difficili rispetto a una cane di razza.
Non bisogna però dimenticare che il canone qualitativo così come la preferenza estetica accordata a un animale piuttosto che a un altro è cosa puramente umana, legata alla presenza e all'osservazione umana sulla vita animale. Ciò significa che allo stadio di natura, se la selezione naturale, ovvero la sopravvivenza del più adatto, risulta effettivamente operante, la lotta riguarda tutti indistintamente e non ammette distinzioni nè preferenze di alcun tipo. Leggendo Zanna bianca del grande Jack London ci si può forse rendere conto di cosa significhi la lotta per la sopravvivenza. Si consideri poi, che molte delle razze animali oggi esistenti sono del tutto artificiali, create dall'uomo, e inesistenti in natura. Dicasi lo stesso dei vegetali.
Le cose assumono un altro significato quando si consideri la selezione all'interno del mondo della specie umana. L'uomo ha avuto origine da una scelta che l'ha proiettato fuori dalla dimensione naturale e lo ha chiamato a "farsi da sé", a prendersi in mano e decidere ciò che voleva essere. Da questo inizio si sono prodotte le razze umane - che sono preferenze di tipo biologico ed estetico consolidatesi nei secoli - e le differenti civiltà. L'uomo è artificiale, è cioè il prodotto della sua arte creatrice.
La società umana è quindi del tutto artificale e costruita "a misura d'uomo", ed esclude quindi le leggi di natura, come ad esempio la selezione naturale. Ciononostante l'uomo ha sempre operato una selezione artificiale tra i suoi simili, e pure all'interno di società ben regolate il conflitto non è stato mai - fino a tempi recenti - escluso e sospeso, poichè esso è il motore della storia e ciò che per primo permette il rinnovamento di una popolazione. La stessa polis greca, come riporta Nietzsche, non escludeva il contrasto e l'agone dalla vita politica, ma ne faceva invece il mezzo codificato per la creazione di un'aristocrazia.
E' chiaro che il numero sproporzionato tende ad avere la meglio anche sui grandi uomini, e nella situazione attuale, in cui il contrasto di forze viene bandito dalla società, è la quantità e non la qualità ad avere la meglio. Non una gerarchia naturale di uomini di valore, ma una burocrazia di incapaci e ventri flaccidi. In un clima come l'attuale anche chi fosse pronto a lottare per il posto da occupare nella società, anche chi ambisse a un'esistenza qualitativa, finirebbe col venire sopraffatto.
Ma ciò che salva è prima di tutto la presa di coscienza, riacquistare la consapevolezza della propria forza e della propria potenza, per poter poi condurre una lotta quotidiana lenta ma inesorabile per la sopravvivenza e il consolidamento di uno stile differente da quello dominante.

sabato 17 maggio 2008

Quando il resto fallisce...



Volendo canzonare una pubblicità, la potenza è nulla senza controllo.
La presenza in ciò che si fa è sempre alla base di un agire costruttivo e consapevole, un fare che non è trascinato dagli eventi e dalle emozioni, ma che è il frutto di una volontà sovrana ferma e decisa.
Irrompe in un istante un lampo che indirizza l'uomo, che lo costringe verso un qualcosa da raggiungere, si annuncia una sfida, uno sforzo, contro se stessi, per il potenziamento. E' qui che davvero compare una selezione qualitativa degli istinti e dei voleri di ciascuno: gerarchia della volontà, controllo su sè e realizzazione attiva.
La potenza si giustifica da sè per sovrabbondanza. Non ha bisogno di parole per giustificarsi, essa è qualitativa.
Quando l'aristocrazia qualitativa abdica al suo ruolo, perde il senso della differenza, si smarrisce e non sa più controllare se stessa, allora il numero, il mondo della quantità, ha il sopravvento e schiaccia, stritola guidato dall'invidia. Trascina chi sta in alto nella polvere fino a calpestarlo.
Ma la consapevolezza, la presenza e l'attenzione, l'impassibilità sono il fondamento vero di ogni differenziazione, di ogni atteggiamento sano e aristocratico. La potenza può allora sprigionarsi e inevitabilmente prevalere, quanto meno sottoforma di preservazione e conservazione.
Oggi tutto fallisce, unica risposta è un nichilismo attivo, è il risorgere della potenza.

domenica 4 maggio 2008

domenica 13 aprile 2008

Al di là del bene e del male



Che cos'è la felicità? La sensazione che la potenza cresce, che si sta superando una resistenza. (F.W. Nietzsche, L'anticristo 1888)

Un problema costante che si pone l'uomo è la distinzione in bene e male. E' piuttosto condivisa l'idea che vi sia un "bene" universale e, di conseguenza, un "male" universalmente riconosciuto. In realtà le cose stanno diversamente, ed è la vita stessa a contraddire nella sua disarmante semplicità questa credenza frutto di poca profondità.
E' davvero semplice e rassicurante dirsi a vicenda "questo è bene e questo è male", segnare un limite a ciò che si può fare (o si deve...) e indicare quindi ciò che bisogna evitare. La morale nasce inevitabilmente dalla distinzione in bene e male, ma la morale, il concetto stesso, si pretende universale e perciò intende omologare gli uomini al di là delle differenze sotto dei principi "superiori".
L'uomo tende certamente a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ma ogni buona concezione della vita, ogni sana idea dell'uomo, non concepisce nè l'idea di bene come un qualcosa di immutabile e assoluto, nè tanto meno come un qualcosa di condiviso da ogni uomo.
L'idea di bene - da cui discende conseguentemente anche la definizione di virtù - è frutto di una visione delle cose, sgorga dalla spontanea visione dell'uomo, dalle sue esperienze. Slegare l'idea di bene dalla vita, dall'esperienza, significa farne pura teoria e astrazione, quando invece ogni popolo vitale e solare, ha sempre ritenuto "buono" solo ciò che rendesse forte e sana la vita. Non tutti gli uomini hanno la stessa idea di bene, e non tutti quindi condividono la stessa scala valoriale. Ma sostanzialmente le visioni dell'uomo sono due:
coloro che vedono nella vita una sofferenza, una caduta che va espiata, un peccato o comunque una valle di lacrime e credono che l'uomo sia sempre affetto e perseguitato dalla malattia (ad es. Freud). Gli altri invece vedono nella vita l'espressione di una forza e di una potenza, della natura profonda dell'uomo, la sua creatività realizzata e la sua sfida incessante alla natura. Vedono nell'uomo un qualcosa di sano e che tende alla potenza. (ad es. Nietzsche, Spengler, Faye).
La seconda concezione colloca la vita al di là del bene e del male. Non perchè l'uomo non scelga e definisca di volta in volta in modo arbitrario ciò che è per lui bene, ma perchè riconosce e rispetta il primato della vita su ogni teoria, afferma il primato della potenza che si esprime nel mondo attraverso l'uomo.
La potenza esprime la tensione a nuove sfide, l'innarrestabile avanzata dell'uomo storico sul suo cammino, conferma una scelta, e si distende sulla superficie circostante spazzando via con la sua forza ogni teoria preconcetta. La potenza vitale è al di là del bene e del male perchè è e non può essere contestata, trattenuta o frenata, essa esprime la pura energia primordiale.
La potenza si espande sul piano orizzontale, come un impulso scaturente dalla volontà dell'uomo. Come una goccia che cada su una superficie immobile e piatta d'acqua. Al suo tocco l'acqua s'incresperà e forse tracimerà dal contenitore.

venerdì 11 aprile 2008

La nostra sfida



Ci troviamo calati in una realtà problematica, in cui si sente il peso della crisi in ogni aspetto della vita. A problemi fondamentali non si sanno trovare risposte e il senso di inadeguatezza cresce. Soluzioni tampone e temporanee non riescono, ovviamente, a recuperare le cose. Siamo in attesa.
Ma mentre aspettiamo - Godot? il messia? l'Avatara? - il tempo passa e la nostra civiltà si sgretola lentamente per la nostra incapacità, sopratutto per carenze culturali. Abbiamo paura della tecnologia e delle sue conseguenze? Non siamo arrivati sino a questo punto casualmente, se è vero che esiste un destino. E solo chi ha un destino rovina. Ed è meglio rovinare che attendere che qualcosa accada.
In realtà, nelle situazioni estreme emerge anche l'elemento salvifico, quella luce che traghetta fuori dall'oscurità. Ma per giungere a questo punto bisogna prima spingere gli avvenimenti e la storia alle estreme conseguenze, dire sì al proprio destino, all'accumularsi di scelte e passato, e farlo esplodere nel momento decisivo. L'uomo si sente inadatto alle sfide attuali? Ebbene, Nietzsche lo disse chiaramente, l'uomo è un qualcosa che dev'essere superato. Se la volontà stessa dell'uomo storico l'ha condotto sin qui, allora farsi carico di quella scelta significa accettarne le conseguenze. Spingere ad un superamento di sé l'uomo, trovare il punto in cui egli divenga capace a sostenere le sfide del futuro.
L'uomo che sappia davvero comprendere la tecnica, non è chi la rifiuta, ma è chi la coglie come un destino e se vogliamo una missione che va rinnovata. E', in fondo, nel suo DNA: già l'utilizzo della mano anticipa all'alba della storia il futuro più lontano.
La radice dei problemi contemporanei è il nichilismo che, si dice, si lega alla tecnica. Sembra davvero vile e incapacitante, a questo punto, non trarre le estreme conseguenze. Mancano i valori, l'osservazione scientifica ha nullificato il mondo? Non sembra davvero giustificabile l'attesa, ma è forse meglio progettare un avvenire, un progetto costruito sulal volontà di accettare e scegliersi un destino.
Si vuole annullare la tecnica? Allora si azzeri davvero quanto ottenuto fino ad oggi per arrivare a un mondo alla Mad Max, in cui la lotta per la sopravvivenza sia cosa necessaria e necessaria. Ma come può, l'uomo di oggi, anche solo pensare una condizione del genere, di conflitto e pericolo costante?
E allora forse è preferibile, sulle orme di Prometeo, accettare la sfida, pensare e progettare il superamento della condizione umana attuale, preparare un nuovo tipo d'uomo, pronto di fronte alla tecnica e alle sue insidie, ma non di meno capace di farvi fronte. Negli anni a venire si anticipa una mutazione antropologica, come già avvenne nella Grande Guerra. Nuove condizioni di vita richiedono nuovi comportamenti, e la selezione che si preannuncia è del tutto artificiale, cioè in sostanza causata dall'azione umana nel corso della storia. Siamo giunti sin qui per la scelta dell'uomo europeo, che è uomo tecnologico, è l'uomo che modificando il mondo modifica anche se stesso.
A noi scegliere se fermarci e cessare d'essere, o avanzare e rischiare.

lunedì 31 marzo 2008

Il tramonto e la rivolta



L'opera più famosa di Spengler, Il Tramonto dell'Occidente ha segnato un'epoca, e ha risvegliato, sulla scia degli scritti di Nietzsche, il mondo borghese dal torpore progressista. Spengler dice che la crisi e il tramonto della nostra civilizzazione sono necessari, in quanto naturale compimento della storia di ogni civiltà. Il tramonto è il destino dell'Occidente e non si può rifiutarlo.
Gli sforzi attuali per uscire da una crisi epocale che sembra irreversibile, paiono voler porre un freno a quel processo di disgregazione delineato dallo Spengler, senza però riuscire in modo efficace nell'intento. Il destino di una civiltà è però il frutto delle sue scelte, per stratificazione, il passato diviene sempre più determinante fino a restringere le scelte possibili. Ma la storia conserva ugualmente il suo carattere di possibilità.
Per un mondo che muore, infatti, è possibile che se ne prepari e anticipi un altro. In questo periodo storico tutto è confuso e mal definito, tuttavia il tramonto della civilizzazione è il tramonto dell'Occidente, cioè di quel mondo che si è fondato sulla visione egualitarista, e che in fin dei conti si sta dimostrando incapace di affrontare il suo destino storico. Perchè ha sempre ritenuto la storia una caduta nel male.
La storia conserva comunque la possibilità di rotture, e queste rotture di tipo temporale, capaci di sovvertire il proseguire del tempo, le chiamiamo rivolte. La rivolta irrompe nel qui ed ora e immette nel tempo storico lineare un principio nuovo ancora in formazione mitica. All'interno di un processo storico che appare irreversibile, si fa strada quindi una scelta storica di segno opposto, che proprio perchè accetta il destino della civilizzazione, riesce a prepararne il superamento. Come già scrisse Giorgio Locchi, l'Europa deve slegarsi dall'Occidente del mondo, deve cessare di essere ciò che non è. Assumere il suo destino di crollo significa accettare quanto nei secoli si è costruito storicamente, farsi carico del proprio passato per preparare una nuova aurora. Se l'Europa vuole accettare il suo destino, se vuole essere ciò che è, deve lasciarsi alle spalle l'Occidente, per compiersi appieno. Solo il compimento storico può garantirne il suo superamento. Ci stiamo trattenendo nel limbo dell'indecisione, quando invece è precisamente di una decisione storica che si ha bisogno.
La decisione storica che introduce un nuovo principio temporale, una concezione differente del tempo e dell'uomo, prepara una nuova origine e la prepara nel qui ed ora dell'atto di rivolta contro la concezione egualitaria consolidatasi nel tempo. Emerge comeun germoglio che spacca la nera terra, per consolidare poi, se capace di resistere alle intemperie e alle sferzate delle stagioni, una nuova pianta e dei nuovi frutti.

giovedì 21 febbraio 2008

Tribalismo urbano - una forma di passaggio al bosco



Ciò che risulta di maggiore difficoltà oggi è riuscire ad essere la propria legge, divenire un nucleo solido ed inattaccabile a se stante, indipendente dalle richieste e dalle imposizioni del sistema e dell’esterno. Quando Stirner afferma, nella famosa sentenza, «ho costruito la mia causa sul nulla», vuole sostanzialmente affermare di aver reciso tutti i legami col mondo della morale e della ragione comune, ne ha fatto piazza pulita, e, una volta liberatosi dalle scorie, sul nulla che rimane ha costruito ciò che è il suo più autentico modo d’essere.
La lotta che si porta avanti contro il sistema omologante, affinché raggiunga dei risultati fattuali, concreti e duraturi, deve porsi degli obbiettivi costruttivi e da raggiungersi gradualmente, la pura distruzione non porta a niente, non produce nulla ed è fondamentalmente passiva. L’azione richiede invece inventiva e creatività. Per raggiungere dei risultati concreti non ci si può affidare né all’egoismo individuale ma neppure al collettivismo – quest’ultimo infatti rischia di divenire un mezzo alienante e obliterante, spersonalizzando totalmente non solo l’azione, ma le stesse motivazioni della stessa, producendo un substrato nichilista assai problematico nella costruzione teorica della prassi.
Una via di mezzo efficace credo possa essere la via comunitaria. La comunità intesa nella sua conformazione tribale o ordalica non prevede gerarchie istituzionalizzate, ma si costruisce in modo del tutto naturale secondo un’organizzazione partecipativa, organica e legittimata dall’interno. Questo significa che la comunità tribale si organizza secondo una struttura semplificata, essenziale, in cui i ruoli di ciascuno sono ricoperti non per assegnazione burocratica, ma per naturale propensione. La partecipazione organica all’attività comunitaria realizza pienamente la personalità del singolo secondo le proprie naturali inclinazioni, favorendo un’eccellenza e un perfezionamento nel campo che più gli si addica, garantendo al contempo una soddisfacente spersonalizzazione a livello ideale e ontologico. L’organismo tribale si trova unito attorno a degli scopi e a delle idee condivise, che vanno accolte in modo del tutto impersonale e di cui si deve essere veicolo, tramite, per il bene di tutta la comunità.
Zerzan presenta un modello primitivista di indubbio interesse, ma che risulta sotto certi aspetti utopico e in gran parte irrealizzabile. Un ritorno a società di tipo pre-storico significa di per sé la fine della storia e, quindi, la fine della lotta, la fine di un processo di mutamento e cambiamento che è invece preferibile considerare e volere costante. Il problema fondamentale che si pone l’autore americano è quello dell’abolizione dell’autorità: se si risale a “società” di tipo pre-neolitico e primitivo si può allora raggiungere una fase priva di sovrastrutture autoritative. Molto brevemente, la tesi della fine della storia propugnata da Zerzan sembra distanziarsi poco dalla tesi cristiana della “caduta nel tempo”, la concezione della storia come luogo della repressione e dell’alienazione.
È però possibile inserire la critica dell’autore americano in una prospettiva differente. Nietzsche afferma che la verità è un processo di costruzione volontaria, la verità è una scelta di senso. Non esistono che interpretazioni. Dunque, la storia può non essere più considerata il luogo della sottomissione, una condanna, ma può rovesciarsi – e così dovrebbe essere – nel luogo della possibilità creativa costantemente rinnovantesi. «Bisogna avere tanto caos dentro di sé per dare vita a una stella» scrive Nietzsche, ecco dunque che se crediamo, con Hakim Bey, che il caos non è mai morto, si può vedere nel processo storico il costante movimento caotico di forze in contrasto. Non si deve cercare il raggiungimento di uno stato di quiete, si deve piuttosto considerare al grado massimo la sfida di una costante ricerca di nuove forme storiche di creatività affermativa, nuove mutazioni in seno alla comunità tribale, che sia capace così di affrontare a viso aperto il Leviatano e sappia al contempo celarsi al Panottico. È un percorso insidioso.
Il caos è uno spazio creativo non privo di pericoli e che richiede grande impegno per essere gestito, è una forza che come una belva selvaggia può in ogni istante sfuggire dalle mani. Scatenare il caos non significa allo stesso tempo riuscire a controllarlo, ed esso può invece risucchiare chi sfrontatamente crede di esserne il padrone. Come Shiva bisogna avere un asse attorno a cui muovono le braccia, immobile eppure in movimento; dal caos l’ordine. Così D’Annunzio: «non ducor, duco». Il caos non è, nonostante tutto, cosa accessibile e manovrabile da tutti, richiede e impone una naturale selezione da cui, in un secondo momento, emergerà inevitabilmente una struttura organizzativa non imposta dall’alto, ma sorta, è il caso di dirlo, sul campo.
Per dirla con Foucault, l’autorità non è di per sé negativa, quindi diversamente da Zerzan, ma partendo dalla sua critica, si può arrivare ad affermare un tipo di organizzazione spontanea, organica sotto forma di struttura tribale o ordalica. Sarebbe una forma in grado di garantirsi una continua capacità di cambiamento interno, pur mantenendo fede a dei principi ideali condivisi.
Ciò che conduce la propria battaglia contro l’omologazione deve porsi in modo costruttivo nei confronti della realtà, così da affermare un modello completamente differente e alternativo. È necessario quindi delineare delle idee-guida fondamentali, e degli scopi che sappiano movimentare la comunità senza però esaurirsi col loro raggiungimento (ad esempio, lo sciopero generale soreliano è una idea forza sempre riproponibile).