lunedì 29 giugno 2009

Punk a vapore



In epoca vittoriana i punk esistevano e portavano la tuba. Si potrebbe introdurre così il volumetto pubblicato da XBook, Guida Steampunk all’Apocalisse (di M. Killjoy, 126 p., 11,50 euro). Da qualche anno nel mondo cosiddetto underground e delle sotto culture, l’estetica e la cultura Steampunk stanno gradualmente prendendo piede, talvolta guadagnando consensi nell’ambito più noto del Cyberpunk.
Una rapida definizione del fenomeno ce la fornisce un articoletto inserito nell’Appendice: «Steampunk è rimmaginare il passato con le percezioni ipertecnologiche del presente». A differenza della letteratura e del cinema Cyberpunk (Blade Runner, Johnny Mnemonic, Matrix), in cui la rappresentazione di mondi distopici, cupi e alienanti, serve da monito contro la tecnologia, lo Steampunk non rifiuta le tecnologie, ma immagina piuttosto che lo sviluppo tecnologico della rivoluzione industriale e dell’era vittoriana abbiano raggiunto traguardi in realtà mai visti, e che il vapore sia la principale fonte d’energia di enormi mostri meccanici. L’approccio steampunk alla tecnica non è di tipo luddista, guarda al passato per vedere un’epoca in cui era ancora possibile credere nei benefici diffusi delle tecnologie. Ecco quindi che la tendenza culturale che fa del vapore (steam) una peculiarità, diventa soprattutto uno stile ed un’estetica che unisce abiti e accessori retrò a qualcosa di meccanico: monocolo e orologio da taschino affianco di computer portatili coperti in legno pregiato e integrati da meccanismi a rotelle. Si tratta insomma di un’estetica postmoderna molto particolare, che a un gusto un po’ mitteleuropeo e reazionario per il vestiario unisce la carica ribelle e sguaiata del punk urbano; dirigibili e Ramones. Macchine a vapore dalle forme straordinarie e dalle capacità impensabili, Zeppelin, navi imponenti ed altre diavolerie meccaniche.
Il vapore e la tecnologia meccanica hanno un senso specifico: rispetto a circuiti elettrici e silicio, le rotelle e le componenti maneggiabili hanno un qualcosa di vivo, con esse si può stringere quasi un contatto e nel loro sbuffare paiono respirare. Si tratta di un approccio «che, rimandando a un’epoca in cui le macchine si potevano ancora costruire nel capanno degli attrezzi e chiunque poteva nel suo piccolo diventare un grande inventore, si spinge oltre il software libero per rivendicare un hardware open-source». I materiali con cui si compone un nuovo marchingegno acquistano una grande importanza, e già circolano in rete foto di chitarre elettriche, macchine a vapore funzionati e altro, modificate e manipolate secondo l’estetica Steampunk.
Il “punk a vapore” assume così le fattezze dello scienziato pazzo, chiuso nel suo laboratorio tra viti, pistoni e martelli, a dare libero sfogo alla sua immaginazione. Quasi la realtà trascolorasse accompagnata della fata verde dell’assenzio, la bevanda dei dandy e degli esteti ribelli dei quartieri malfamati, geniacci col monocolo e la mano meccanica. La fantasia festosamente straripante e sognante ha d’altra parte preso forma in un film che è un must per ogni buon Steampunk che si rispetti, Il castello errante di Howl (2005) del grande Miyazaki, l’immaginifico regista amatissimo dai giovani non conformi e un anno prima nel costosissimo lungometraggio di animazione del portentoso Katsuhiro Otomo, Steamboy (2004). La prima è la storia di un castello “vivente” che si muove su gambe meccaniche grazie a un fuoco che continuamente ne alimenta la vita. La sua porta si apre su tempi e luoghi diversi, proiettando lo spettatore in un mondo di sfrenata fantasia, a cui peraltro il “Disney nipponico” ha abituato da tempo i suoi numerosi estimatori.
Otomo, autore della saga del “ragazzo a vapore” e di un rifacimento a cartoni di Metropolis, ha anticipato in qualche modo i tempi, dando il là nel 2004 a un nuovo “cult” dopo il successo planetario ottenuto in precedenza con Akira, straordinaria e intricata opera d’animazione tipicamente cyberpunk. Steamboy è ambientato nella Londra di metà XIX secolo, narra le avvenutre di Ray, figlio e nipote di apprezzati scienziati, a cui viene recapitata una misteriosa sfera contenente vapore compresso ad alta densità che in molti vogliono. Tra fughe a perdifiato e voli vorticosi a cavallo della capsula a vapore, il film risulta davvero spettacolare.
La particolarità del film di Otomo è che le macchine disegnate e messe sullo schermo sono tutte state progettate da ingegneri e potenzialmente funzionanti. Esiste un librone del lungometraggio per collezionisti che raccoglie tutti i progetti delle macchine apparse nel film minuziosamente riportati, nel caso qualche punk con tuba e ghette volesse costruirsi da sé la sua moto a vapore! Oltre ai romanzi a fumetti e alle edizioni speciali rigorosamente a tiratura limitata di routine. Sino ad allora lo Steampunk è vissuto nei libri, iniziando nel 1979 con il romanzo Morlock Night, di K. W. Jeter, ambientato nella Londra vittoriana di metà ‘800 dominata da una avanzatissima tecnologia a vapore, elemento fondamentale per la rivoluzione industriale dell’epoca. Da ricordare poi Steampunk di Paul Di Filippo (Nord 1996, Tascabili Nord 1998) e Le macchine infernali (1987, Urania 1998) di Jeter.
Nel passato recente l’interesse nei confronti del fenomeno Steampunk è andato crescendo. Se Otomo pone da anni, nei suoi film d’animazione come nei suoi fumetti, il problema della tecnica auspicandone non un rifiuto, ma un diverso approccio, Miyazaki appare invece collocarsi su posizioni marcatamente ecologiste e in taluni casi luddiste. Comunque sia, ancora più recentemente lo Steampunk è andato in scena nella serie animata Last Exile, e aspetti non trascurabili di questa estetica sono rinvenibili nel film La bussola d’oro, in cui macchine volanti e meccanismi di vario genere, oltre a un vestiario “retrò”, ricordano vivamente le suggestioni riassunte nel volumetto della Killjoy. Nel frattempo fioriscono riviste on line e spazi in Second Life.
L’ispiratore dello stile in questione è chiaramente Jules Verne che con le sue tecnologie tardo ottocentesche e la passione per viaggi fantastici fornisce al gentleman punk la figura del Nautilus, nave misteriosa che ha tutte le caratteristiche di una città-pirata mobile estranea a ogni legge se non a quella del suo capitano. Del punk troviamo dunque l’attitudine al fai-da-te, si tratti di un computer portatile che diventa legnatile fino alla costruzione di una casa sull’albero, la Steampunk treehouse, di cui esiste un sito che merita d’essere visitato (www.steamtreehouse.com). In questo caso la fantasia e la progettualità hanno preso forma in una casa meccanica nel deserto americano. Tutto nell’ottica della modificabilità del prodotto, e soprattutto assemblato in osservanza dell’estetica vittoriana fatta di ferro e meccanica. Uno squat postmoderno e postatomico.
È stato chiamato fantascienza vittoriana, romanticismo scientifico, fantasy industriale, ma lo Steampunk è un genere e uno stile che immagina il passato per modificare il futuro: «siamo una comunità di maghi meccanici incantati dal mondo reale e avvinti dal mistero della possibilità. Stiamo ricostruendo il passato per assicurarci il futuro». Un futuro che la Guida Steampunk all’Apocalisse si prepara in tutta evidenza a considerare anche tra i peggiori. Con una buona dose di ironia l’autrice ci spiega le tattiche di sopravvivenza nel dopo-apocalisse, come costruirsi un riparo e come coltivare frutta e verdura, come purificare acqua contaminata e come difendersi dagli avversari affamati. Sembra più una situazione alla Mad Max che alla Steamboy, ma d’altra parte il movimento Steampunk è anarcoide nel modo tipicamente americano di esserlo, aperto a ogni influenza e talvolta fin troppo sognante. Utopie o meno, si tratta di un’estetica che ha un innegabile fascino e che ha se non altro il merito di porre il problema della tecnica senza rifiutarla a priori, ma vivacizzandola con fantasia e vitalismo.