mercoledì 9 settembre 2009

Sul radicamento e la politica



Ciò che fornisce una intima e profonda sicurezza a una comunità è il suo legame col luogo in cui è situata. È una relazione che si instaura nel corso dei secoli e che nel tempo dà vita a una catena che si snoda nella storia con continuità e costanza. Quella che Carl Schmitt definiva collocazione spaziale storico concreta è irrinunciabile per ogni vera compagine umana che intenda prolungare nel tempo la missione storica di cui s’è fatta carico.
Si tratta in tutta evidenza di un principio identitario e perciò marcatamente relativista: la collocazione territoriale sorge da una appropriazione e da una divisione, sorge cioè da un atto volontaristico di de-cisione che costringe a una scelta specifica, collocata, condizionante. Come ha chiarito da tempo l’antropologia, l’uomo ha una molteplicità di “nature” tra le quali scegliere, egli è l’unico essere vivente a non essere determinato e fissato all’origine. L’uomo può scegliere, ma una scelta di tal specie, il gesto che decide per una “natura” piuttosto che per un’altra, per un ordinamento piuttosto che per un altro, è già la prima pietra della civiltà, della Kultur spengleriana.
Quindi alla base di una civiltà compiuta, di una comunità vitale, vi è una decisione che proietta quel gruppo umano nella storia, segnandone così il destino, e differenziandolo quindi da ciò che si trova al di là dei suoi confini spaziali. L’uomo ha dunque la capacità di scegliere la propria identità, di darsi la forma che ritiene preferibile e di segnare con la sua visione del mondo la storia a venire della sua comunità. Questo si chiama destino.
È conforme a questo ordine di cose che l’identità di un popolo storico possa mutare e trasformarsi nel tempo, acquistando nuove forme espressive. Quanto vanno affermando molti critici dell’identità come Hobsbawn è vero: la tradizione è una costruzione politica. La loro tesi presuppone però che ogni costruzione sia cosa ben facile da demolire e rimpiazzare. Anche in campo egalitario si è dovuto tuttavia riconoscere che le identità, benché frutto di una scelta storia e non di una sorta di preformismo metafisico originario, siano nondimeno fattivamente operative e profondamente sentite. Radici che affondano da secoli in un suolo sono difficili da estirpare a parole.
L’identità, la tradizione che si prolunga nella storia e si colloca in un territorio e lo conforma, nasce da una decisione umana storicamente collocata, questa decisione dà inizio a un destino temporale. Un tale destino di civiltà sorge nel suo fulcro fondamentale da un mito di fondazione. Il mito è un racconto operante nella compagine umana che si radica nella specifica natura intellettuale e fisica di una popolazione, nasce da una ispirazione collettiva che richiede una peculiare condizione storica e che segna inevitabilmente il futuro. Le trasformazioni che si accumulano nei secoli non sono un di più, ma sono modifiche e aggiunte a un disegno originario che non perde vigore se costantemente consapevole del gesto iniziale e se sempre attento a mantenere fede alla missione storica tracciata dalla decisione mitico-destinale originaria.
Il radicamento è il fondamento di ogni genuina costruzione comunitaria; senza la presenza su un territorio, l’abitarlo autenticamente e il legame di profondo amore che chiama gli uomini ad esso, senza queste componenti, non vi è identità e non esiste storia umana. La civiltà sorge da una atto politico volontaristico che deve necessariamente collocarsi in un luogo delimitato. Radicamento significa mettere radici, tracciare il solco che indica la via da seguire. Sarà una via non rettilinea, ma fintanto che il fuoco del mito fondativo continuerà a vivificare la comunità, vi sarà destino e autenticità. È in una tale ottica che bisogna leggere la capacità della civiltà indoeuropea di incorporare in modo efficace i miti delle società matriarcali senza per questo rinunciare alla propria specificità culturale e antropologica.
Quanto vanno dicendo in questi anni gli universalisti nemici di ogni differenza e di ogni identità, ciò che sostengono gli egualitaristi distruttori di ogni storia e destino, è il frutto del discorso livellatore globalizzatore che vuole ridurre la molteplicità multidimensionale a un unico monodimensionale. Aiutato da uno scomposto e irrazionale impulso securitario, l’egualitarismo trova un efficace appiglio per ridurre sotto il proprio controllo gli uomini e per dividere e rendere deboli i popoli e le radici storiche. L’universalismo livellatore assume quindi i tratti di una tolleranza esasperata, afferma le necessità dell’accoglienza e promette l’avvento del paradiso in terra allorché si sarà raggiunta la creazione di un mondo unico globalizzato, in cui ognuno potrà sentirsi “cittadino del mondo”. Secondo questo egualitarismo all’ennesima potenza, figlio legittimo del progetto universalista cristiano-illuminista, è necessario che tutti seguano e si convertano all’unica verità e si lascino illuminare dalla buona novella. Le sorti magnifiche e progressive richiederanno tempo, ma condurranno inevitabilmente alla fine della storia e alla pace tra gli uomini.
È evidente a questo punto che un pensiero siffatto, asfissiante e totalizzante, ipocrita e letale, nasconde una profonda e violenta intolleranza nei confronti dei popoli propriamente detti, vuole cioè la distruzione e il riassorbimento nell’unità di uguali di ogni comunità storica – vuole la fine delle differenze. Questo progetto non è cosa degli ultimi decenni, ma è una missione storica anti-storica che si è prolungata nei secoli e che sembra sempre più vincente in questi anni. A una tale tendenza si oppone il campo avverso, il discorso sovrumanista che partendo dal radicamento e dalla decisione mitico-destinale afferma il differenzialismo antropologico e l’assoluta bontà del persistere delle differenze che significano autentica ricchezza.
(f.)



opere di Dennis Rudolph