giovedì 21 febbraio 2008

Tribalismo urbano - una forma di passaggio al bosco



Ciò che risulta di maggiore difficoltà oggi è riuscire ad essere la propria legge, divenire un nucleo solido ed inattaccabile a se stante, indipendente dalle richieste e dalle imposizioni del sistema e dell’esterno. Quando Stirner afferma, nella famosa sentenza, «ho costruito la mia causa sul nulla», vuole sostanzialmente affermare di aver reciso tutti i legami col mondo della morale e della ragione comune, ne ha fatto piazza pulita, e, una volta liberatosi dalle scorie, sul nulla che rimane ha costruito ciò che è il suo più autentico modo d’essere.
La lotta che si porta avanti contro il sistema omologante, affinché raggiunga dei risultati fattuali, concreti e duraturi, deve porsi degli obbiettivi costruttivi e da raggiungersi gradualmente, la pura distruzione non porta a niente, non produce nulla ed è fondamentalmente passiva. L’azione richiede invece inventiva e creatività. Per raggiungere dei risultati concreti non ci si può affidare né all’egoismo individuale ma neppure al collettivismo – quest’ultimo infatti rischia di divenire un mezzo alienante e obliterante, spersonalizzando totalmente non solo l’azione, ma le stesse motivazioni della stessa, producendo un substrato nichilista assai problematico nella costruzione teorica della prassi.
Una via di mezzo efficace credo possa essere la via comunitaria. La comunità intesa nella sua conformazione tribale o ordalica non prevede gerarchie istituzionalizzate, ma si costruisce in modo del tutto naturale secondo un’organizzazione partecipativa, organica e legittimata dall’interno. Questo significa che la comunità tribale si organizza secondo una struttura semplificata, essenziale, in cui i ruoli di ciascuno sono ricoperti non per assegnazione burocratica, ma per naturale propensione. La partecipazione organica all’attività comunitaria realizza pienamente la personalità del singolo secondo le proprie naturali inclinazioni, favorendo un’eccellenza e un perfezionamento nel campo che più gli si addica, garantendo al contempo una soddisfacente spersonalizzazione a livello ideale e ontologico. L’organismo tribale si trova unito attorno a degli scopi e a delle idee condivise, che vanno accolte in modo del tutto impersonale e di cui si deve essere veicolo, tramite, per il bene di tutta la comunità.
Zerzan presenta un modello primitivista di indubbio interesse, ma che risulta sotto certi aspetti utopico e in gran parte irrealizzabile. Un ritorno a società di tipo pre-storico significa di per sé la fine della storia e, quindi, la fine della lotta, la fine di un processo di mutamento e cambiamento che è invece preferibile considerare e volere costante. Il problema fondamentale che si pone l’autore americano è quello dell’abolizione dell’autorità: se si risale a “società” di tipo pre-neolitico e primitivo si può allora raggiungere una fase priva di sovrastrutture autoritative. Molto brevemente, la tesi della fine della storia propugnata da Zerzan sembra distanziarsi poco dalla tesi cristiana della “caduta nel tempo”, la concezione della storia come luogo della repressione e dell’alienazione.
È però possibile inserire la critica dell’autore americano in una prospettiva differente. Nietzsche afferma che la verità è un processo di costruzione volontaria, la verità è una scelta di senso. Non esistono che interpretazioni. Dunque, la storia può non essere più considerata il luogo della sottomissione, una condanna, ma può rovesciarsi – e così dovrebbe essere – nel luogo della possibilità creativa costantemente rinnovantesi. «Bisogna avere tanto caos dentro di sé per dare vita a una stella» scrive Nietzsche, ecco dunque che se crediamo, con Hakim Bey, che il caos non è mai morto, si può vedere nel processo storico il costante movimento caotico di forze in contrasto. Non si deve cercare il raggiungimento di uno stato di quiete, si deve piuttosto considerare al grado massimo la sfida di una costante ricerca di nuove forme storiche di creatività affermativa, nuove mutazioni in seno alla comunità tribale, che sia capace così di affrontare a viso aperto il Leviatano e sappia al contempo celarsi al Panottico. È un percorso insidioso.
Il caos è uno spazio creativo non privo di pericoli e che richiede grande impegno per essere gestito, è una forza che come una belva selvaggia può in ogni istante sfuggire dalle mani. Scatenare il caos non significa allo stesso tempo riuscire a controllarlo, ed esso può invece risucchiare chi sfrontatamente crede di esserne il padrone. Come Shiva bisogna avere un asse attorno a cui muovono le braccia, immobile eppure in movimento; dal caos l’ordine. Così D’Annunzio: «non ducor, duco». Il caos non è, nonostante tutto, cosa accessibile e manovrabile da tutti, richiede e impone una naturale selezione da cui, in un secondo momento, emergerà inevitabilmente una struttura organizzativa non imposta dall’alto, ma sorta, è il caso di dirlo, sul campo.
Per dirla con Foucault, l’autorità non è di per sé negativa, quindi diversamente da Zerzan, ma partendo dalla sua critica, si può arrivare ad affermare un tipo di organizzazione spontanea, organica sotto forma di struttura tribale o ordalica. Sarebbe una forma in grado di garantirsi una continua capacità di cambiamento interno, pur mantenendo fede a dei principi ideali condivisi.
Ciò che conduce la propria battaglia contro l’omologazione deve porsi in modo costruttivo nei confronti della realtà, così da affermare un modello completamente differente e alternativo. È necessario quindi delineare delle idee-guida fondamentali, e degli scopi che sappiano movimentare la comunità senza però esaurirsi col loro raggiungimento (ad esempio, lo sciopero generale soreliano è una idea forza sempre riproponibile).