martedì 22 luglio 2014

Il rifiuto cosmico


L’uomo stava raggiungendo il luogo dell’incontro a piedi. Un piazzale a dieci minuti dalla sua abitazione. Nel cammino notò i numerosi negozi sfitti, le vetrate vuote e il senso di innaturale smarrimento che questo generava in un quartiere che un tempo era stato vivo. Solo il traffico delle automobili teneva in vita quella parte della città, altrimenti destinata all’oblio.
Ricordava che qui c’era il negozio di alimentari e là il barbiere, dall’altra parte della strada la cartoleria e poco oltre il bar dove si trovava con gli amici quand’era ragazzo. Ora restavano solo cartelli gialli e verdi con scritto affittasi, polvere e vecchie insegne appoggiate contro il muro interno. Ricordi di un tempo che sembrava lontanissimo.
In compenso aveva aperto da anni una di quelle famigerate agenzie interinali. Era passato di lì anche lui, dopo aver perso il lavoro, ma si era ben presto reso conto che per trovare un’occupazione avrebbe dovuto fare da sé. Quei posti servivano solo a far perdere tempo e creare false illusioni. Grandi discariche di curriculum vitae e disperazione. Impieghi un tanto al minuto. Futili sassolini smarriti da un pachiderma distratto. Là giacevano intere famiglie e lo scorrere del tempo erodeva un po’ alla volta ogni prospettiva futura. Così era morto il futuro, così stavano soffocando le città assieme alle attività produttive. Un’economia di sussistenza, parassitaria e folle. L’abominio si ingigantiva e pulsava tutto attorno, stritolava i muri, squarciava i vetri, irrompeva nelle tristi stanze e fagocitava i muti sciocchi abitanti.
Poi c’era la grande sala slot. Vetrate colorate, luci invitanti e arredamento di classe. L’antro dell’inferno non poteva essere più accogliente. Mentre in Ungheria venivano messe fuori legge, al pari della peggior droga messicana, nel nostro paese i partiti si nutrivano senza batter ciglio dei frutti della disperazione. Mentre i negozi chiudevano, le sale slot prosperavano e i ristoranti cinesi facevano affari. L’uomo aveva l’impressione che solo la memoria avrebbe potuto salvare il suo mondo dal lento svanire in cui stava precipitando.
Il ragazzo lo stava aspettando appoggiato all’auto. Guardava distrattamente intorno. Lo salutò con un cenno.
Di cosa volevi parlarmi ragazzo?
Non trovo lavoro, forse potresti aiutarmi.
Non saprei come fare sinceramente. Dovresti rapinare uno di quei posti maledetti. Disse indicando una sala slot.
È un’idea.
Per come stanno le cose, solo regredendo allo stadio primordiale possiamo avere un futuro.
Per un po’ rimasero in silenzio. Macchine andavano e venivano nel parcheggio. Dal bar all’angolo proveniva della musica. Poi il ragazzo disse:
Ho due pillole. Una bianca e una nera. Quale dovrei prendere?
E a cosa servono?
Me le ha date un tizio. Dice che una sceglie il mondo di oggi, l’altra l’incognita.
Non è molto chiaro.
No, infatti.
Devi prenderla per forza?
No.
Ma sei curioso.
Sì.
Scegli l’incognita, è pur sempre meglio di quello che già abbiamo.
Il ragazzo annuì con un cenno impercettibile. Calpestò la pillola bianca sotto la suola della scarpa e ingoiò quella nera.
Per qualche minuto rimasero in silenzio. A un certo punto il ragazzo si piegò in due, trafitto da fitte fortissime all’addome. Iniziò a gridare. L’uomo non sapeva che fare.
I muscoli e la pelle iniziarono a tremare, a crescere ed espandersi in modo distorto. Nel giro di qualche minuto il ragazzo era cresciuto di dimensione, ingrandendosi a dismisura, le vene pulsanti, i muscoli come enormi bubboni. Le grida avevano attirato una folla di curiosi che assisteva impotente e cinica ai movimenti disumani e distorti di quell’ammasso di carne gelatinosa gorgogliante.
Divenne enorme, perdendo completamente la forma umana, assumendo le sembianze di un gigantesco organismo unicellulare primigenio. Iniziò a inglobare macchine e persone, stritolando e soffocando tra le pieghe di quell’ammasso di carne deforme.
L’uomo si era allontanato in preda al panico. Del suo giovane amico non restava nulla. Ora una forma di vita primitiva e orribile schiacciava ogni cosa sul suo cammino, aumentando gradualmente di dimensione. Il principio del grande rigetto cosmico.

martedì 15 luglio 2014

Sacrificio


Il cielo è nero, il mare una distesa di grigio scuro e la sabbia è bruna, intrisa del sangue dell’uomo che ho ucciso.
Io ultima figura di un bianco smorto sull’orlo del nulla. Spingo lo sguardo fin dove può arrivare. Sfuggenti riflessi cobalto attraversano il cielo dove le stelle sono morte e il sole si è spento. L’orbita cieca della Terra si è arrestata, il magnetismo è collassato. é l’era dei cataclismi.
La banchina di pietroni si distende come un tentacolo abbandonato a bordo dell’acqua morta, putrescente. E nel buio non c’è luce, solo livide sagome di muretti e chioschi in lontananza e pochi segni del passaggio dell’uomo.
I miei passi sprofondano nella sabbia rossastra. Osservo il morto. Intravedo i lineamenti e la fisionomia. Nella mia mano stringo ancora la pistola.
In fondo tutto ciò che non vediamo non esiste. Quale uomo può esistere senza altri uomini? Al di fuori della società degli uomini cosa resta?
La Terra è un astro morente in un universo oscurato. La parabola mortale è arrivata al suo epilogo e non ci sono testimoni. Il grido muto della vita che svanisce si perde nel nero stellare, come polvere senza ritorno.
Come siamo arrivati a questo è difficile dirlo. Sembra una notte eterna che ingoia ricordi e realtà. Non si vede quasi niente attorno, ho dimenticato i colori e la luce.
Non resto che io. E anche ci fosse qualcun altro, non lo saprei e non farebbe differenza. è scesa la fine inesorabile su tutto ciò che conoscevamo. Il mondo è un’invenzione dell’uomo. Ora non resta che il buio. Abito il buio. Cammino nel nulla. è il tempo dell’indifferenziato e dell’immobile e silenzioso movimento di pianeti freddi, grigi e morti.
Non ricordo chi fosse l’uomo che ho ucciso. Forse era un amico, forse uno sconosciuto. Non so come sia arrivato qui, con me.
Mi ha chiesto di ucciderlo.
Gli ho domandato perchè avrei dovuto farlo.
Perchè morire senza che nessuno lo sappia è come non morire, ha risposto.
Non capivo.
Significherebbe smarrirsi nell’indifferenza di questo pianeta di ombre, ha cercato di spiegarmi.
Mi faceva male la testa e questi pensieri mi affaticavano. Non lo seguivo. lo vedevo a malapena e non distinguevo i lineamenti.
Sei solo stanco. E folle. Gli ho risposto.
No. Tu non capisci, ha detto. Noi stiamo svanendo, le nostre vite e i nostri ricordi stanno soffocando e prima che sia troppo tardi, prima che di me non resti nulla, voglio conservare il mio essere.
Non sono un assassino.
Non sei un assassino. Non lo saresti in nessun caso. Non esiste più un mondo, non esistono più leggi, non esiste più nulla. Posso fare da solo se preferisci.
Per un arco di tempo indefinibile abbiamo taciuto. Fissavo i paraggi, sforzandomi di distinguere qualche forma, cercando di ricordare qualcosa. Lui vicino a me.
Come siamo arrivati a questo? Ho domandato.
Non lo so, ma era una cosa che dovevamo mettere in conto.
In che senso?
Non siamo che uno dei molti pianeti nell’universo e non siamo che una delle molte forme di vita. Il nostro tempo è finito.
Siamo ancora vivi però.
Non per molto. E in ogni caso non fa alcuna differenza. Il mondo si è vestito a lutto e la cosa più ragionevole che possiamo fare è accettare la fine finchè è ancora possibile averne una.
Morirò anch’io, dopo che ti avrò ucciso, ho risposto.
Credo mi stesse fissando nel buio, quando mi rispose - no, tu non morirai davvero, è un lusso che non potrai permetterti. Perchè sarai solo, dimenticato e senza ricordi. Ti esaurirai, sparirai, ma la morte ti terrà lontano da sé.
Cazzate.
Non importa cosa pensi, sparami e basta.
Passò qualche istante. Alzai il braccio e puntai la pistola alla sua testa. La mano sembrava perdersi nel nulla circostante.
Il lampo dell’esplosione illuminò per un istante il volto dell’uomo e il grumo di sangue che si aprì dalla sua testa. Poi tornò il silenzio.
Questa è l’ultima storia che posso raccontare. è l’ultimo ricordo ancora vivo in me. Forse è l’ultimo lampo dell’essere umano che ero.